La tavola dei relatori.

Per quella nuova chance dietro le sbarre

Erano spariti dalla Legge di stabilità. Ma il 15 febbraio, il ministro Severino ha annunciato di aver recuperato i fondi destinati alle carceri. L'occasione per continuare a dare lavoro ai detenuti e «ricostruire legami con la società»
Irida Mezini

Solo un anno fa, il lavoro penitenziario era un tema tabu per i media. Ha destato sensazione che nel settembre scorso il Corriere della Sera dedicasse un pezzo in prima pagina in cui si dimostrava che dare lavoro ai carcerati è, oltre che un gesto di umanità, conveniente per lo stato. Poi sono giunte ancora una volta le parole del presidente Napolitano il 6 febbraio scorso a San Vittore: «L’apertura del carcere all’istruzione e al lavoro» è un «passo indispensabile» per l’autentico recupero sociale dei detenuti.

Venerdì 15 febbraio si è fatto un altro passo in avanti. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, e Luciano Violante sono a Padova per un convegno organizzato dal Ministero della Giustizia con il Consorzio sociale Rebus, la Confindustria Padova e l'Università di Padova, presente anche un magistrato del Csm Giovanna Di Rosa. Paola Severino ha un annuncio da dare: i 16 milioni di euro destinati al carcere, e misteriosamente scomparsi dalla legge di stabilità nel dicembre scorso, sono stati recuperati. E di fronte a 500 presenti e a una folta rappresentanza del mondo del carcere, ma anche delle istituzioni ed imprenditoriale, chiede a tutti di rilanciare. «Quest’anno ho visitato più di 25 istituti penitenziari», spiega, «e sono sempre entrata nei reparti più difficili. Dietro le sbarre c’è una quantità enorme di persone in cerca di nuove chance. E il lavoro carcerario è una delle grandi chiavi per risolvere il problema. D’altra parte voi a Padova queste cose già le sapete e le insegnate».

«C’è un termine biblico», prende la palla al balzo Luciano Violante, «che descrive perfettamente il principio a cui dovrebbe ispirarsi una politica moderna e civile: è Tsedaqah, un sostantivo difficile da tradurre, che significa sia responsabilità sia riconciliazione. Responsabilità vuol dire che chi ha sbagliato deve pagare. Ma riconciliazione ci spiega in che senso deve pagare: ricostruendo i legami con la comunità che il delitto ha interrotto».

Sono proprio gli imprenditori Enrico Berto, Confindustria, Piergiorgio Baita, gruppo Mantovani, a confermare che non si tratta solo di belle teorie. E così anche i rappresentanti delle istituzioni che portano lavoro in carcere, dalla Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo alla multiutility AcegasAps, rappresentata dall’ad Cesare Pillon. Perché, come il presidente del consorzio Rebus, Nicola Boscoletto, ricorda, «Il lavoro ai detenuti abbatte la recidiva dal 90 al 2 per cento e comporta più sicurezza per i cittadini e un enorme risparmio per la collettività, dal momento che ogni detenuto costa allo stato 250 euro al giorno».

Ma per chi visita i capannoni del laboratorio carcerario padovano queste cifre diventano un’evidenza, testimoniata da facce di gente cambiata sul serio. Non tra i carcerati. Com’è capitato, tra gli altri, a Carlo De Benedetti. Boscoletto, al termine, legge qualche riga di un suo recente messaggio: «Ringrazio ognuno dei ragazzi del carcere di Padova. La prego di far sapere che quella mia visita al carcere è tra i ricordi più belli della mia esperienza umana, che ha portato prima stupore, poi simpatia ed ammirazione per il clima straordinario e la voglia di vivere e di fare che permea tutto l’ambiente. Se l’Italia sapesse trovare un nuovo inizio dopo tanti errori, così come loro sono stati capaci di fare, avremmo buone speranze per il nostro Paese».