Kim Jong Un e i suoi generali.

L'azzardo del giovane dittatore

Ha solo trent'anni ma minaccia il mondo con la bomba atomica. Kim Jong Un sfida i propri generali e prova ad alzare la posta del disarmo. Ma per Vincenzo Faccioli Pintozzi, di "Asianews", la vera tragedia è «il popolo ridotto alla fame»
Luca Fiore

Dicono di essere pronti ad attaccare gli Stati Uniti con armi nucleari. I generali nordcoreani fanno la voce grossa e la comunità internazionale non sa cosa pensare. Non si è mai saputo molto di ciò che accade nei palazzi di Pyongyang. E da quando, due anni fa, al potere è salito il giovane Kim Jong Un (terzogenito trentenne del defunto Kim Jong Il), la lettura di quel che accade si è fatta ancora più difficile. Oggi la Corea del Nord «non ha più solo le fionde: ha testate atomiche e missili a lunga gittata che possono colpire le basi americane nel Pacifico e le Hawaii», dice Vincenzo Faccioli Pintozzi, analista di Asianews: «Ma a nessuno conviene che la situazione precipiti».

Come si spiega l’escalation delle ultime settimane?
Ci sono diverse letture tra loro complementari. La prima è che il nuovo dittatore Kim Jong Un non ha ancora completato la presa del potere. L’apparato militare su cui si fonda il regime era completamente fedele a Kim Il Sung e molto vicino al figlio Kim Jong Il. Questo non si può dire con il giovane nipote. I generali avrebbero preferito lo zio Jang Song Thaek, che considerano uno di loro. Quindi Kim Jong Un userebbe questo braccio di ferro per ottenere la fiducia dei vertici dell’esercito, senza la quale rischia un colpo di Stato. Poi va considerata la situazione interna del Paese, che è disperata.

In che senso?
La situazione economica e sociale è davvero al limite. Basti pensare che l’anno scorso, per la prima volta in cinquant’anni, c’è stata una piccola manifestazione di protesta. Non contro il regime in sé, perché nessuno mette in discussione il sistema, ma per chiedere un po’ di aiuto da parte dello Stato. Si protestava per il fatto che l’esercito sequestra il 30 per cento degli aiuti umanitari che arrivano nel Paese attraverso le organizzazioni cristiane. Si ha l’impressione che Kim Jong Un tema che il sistema non regga più e preferisca morire in una fiammata piuttosto che perdere il potere.

Ma rispetto alle relazioni internazionali sembra una mossa senza senso.
Un’altra interpretazione è che in realtà si tratti di una manovra laterale per tornare poi ai colloqui sul disarmo del nucleare, interrotti dal 2008, con una carta molto più forte da giocare: «Non solo abbiamo il nucleare, ma possiamo colpire gli Stati Uniti». Si tratterebbe, insomma, di alzare il prezzo per il disarmo. Io sono convinto che la guerra, in realtà, non la voglia nessuno. Un attacco sarebbe la fine immediata di Kim Jong Un.

Quindi si tratta di tattica.
I nordcoreani sono imprevedibili. Le intelligence occidentali escludevano categoricamente il terzo test atomico che poi è stato fatto. È vero, sono anni che Pyongyang agita lo spauracchio dell’attacco, ma questa volta ha l’atomica. Tuttavia penso che non ci sia il rischio reale che si vada oltre qualche scaramuccia di frontiera con i sudcoreani. Nel 2010 Pyongyang affondò una corvetta della marina sudcoreana uccidendo 50 marinai. Non ci fu reazione, a parte il blocco temporaneo degli aiuti umanitari.

Che ruolo sta avendo la Cina in questo scenario?
La Cina è l’ultimo fattore che ha destabilizzato una situazione già abbastanza precaria. Pechino il mese scorso, per la prima volta, ha votato contro il Governo di Pyongyang al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si trattava di sanzioni che lasciano il tempo che trovano. I nordcoreani vivono con un dollaro al giorno e non ha molto senso punirli vietando loro di esportare capitali all’estero. Tuttavia la nuova posizione dei cinesi è significativa, perché mostra che la nuova leadership non è disposta a fare da garante a un giovane di cui non si sa molto. Tanto è vero che i nordcoreani hanno accusato la Cina di essersi fatta fregare dagli imperialisti americani. Detto questo, neanche a Pechino vogliono che la situazione precipiti.

Perché?
Da una parte se scoppia una guerra, in ogni caso, la penisola coreana si riunifica. E se ciò avviene, su 22 milioni di nordcoreani almeno 10 andrebbero in Cina. Sarebbero 10 milioni di persone alla fame e profondamente ideologizzate che entrerebbero in Cina solo perché c’è il comunismo. E Pechino questo non lo vuole. L’altro motivo è che la Cina è già proprietaria della Corea del Nord, visto che possiede l’85 per cento delle risorse economiche presenti nel Paese. Se la situazione è stabile i cinesi non fanno altro che guadagnarci.

Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale?
La Corea del Nord è in mano a un uomo imprevedibile che non segue nessun tipo di logica. E la situazione è intricata. Ma non siamo di fronte alla Germania nazista. La situazione umanitaria è ancora più grave di quella politica, e nessuno fa niente. Gli unici che riescono a fare qualcosa sono i cristiani, cattolici e protestanti. Le organizzazioni internazionali dovrebbero mettersi la mano sulla coscienza e pensare che non abbiamo a che fare con una grande base militare. Lì c’è un popolo intero che muore di fame. Così non si può andare avanti.