Padre Gerald Hammond con un bimbo coreano.

«Andare a Pyongyang? Per me è un pellegrinaggio»

Padre Gerald Hammond è l'unico sacerdote cattolico ad avere accesso al Paese di Kim Jong Un. Dal 1998 visita i malati di tubercolosi due o tre volte l'anno. «La mia è la "pastorale della presenza". Sto con loro, perché Cristo è lì con loro»
Luca Fiore

Si chiama padre Gerald Hammond, ha 80 anni, ed è l’unico sacerdote cattolico ad avere accesso con regolarità alla Corea del Nord. Nato negli Stati Uniti è arrivato come missionario nella penisola coreana appena dopo la fine della guerra fratricida che divise il Paese tra Nord e Sud. Vive a Seul da ormai 53 anni e del suo ordine, l’Istituto dei missionari di Maryknoll, è diventato il superiore regionale. Dal 1998 riesce ad entrare in Corea del Nord al seguito di alcune organizzazioni umanitarie che visitano soprattutto i centri che curano la tubercolosi.

Padre Hammond, quando è stato l’ultima volta in Corea del Nord?
Lo scorso novembre, per una settimana. Abbiamo visitato sette centri che curano la tubercolosi nella zona Sud di Pyongyang. Con me c’era un medico, un infermiere e alcuni esperti di tbc.

Quante volte ci è stato dal 1998?
Più di cinquanta. Vado due o tre volte l’anno.

Come si svolgono queste visite?
Dal momento del nostro arrivo a Pyongyang siamo incessantemente accompagnati da personale del Governo. Ci assistono in tutto e per tutto il tempo. Sono molto gentili e disponibili. Nel Paese non possiamo introdurre telefoni cellulari né computer. Andiamo soltanto nei luoghi dove ci accompagnano. La maggior parte del tempo lo passiamo in una struttura di accoglienza gestita dal Ministero degli Esteri. Collaboriamo con i funzionari del Dipartimento della salute della Corea del Nord, perché la nostra missione è legata essenzialmente al problema della tubercolosi. È una malattia che si trasmette per via aerea e si contrae in luoghi di lavoro malsani o per malnutrizione. Il Paese, come si sa, è molto povero: spesso manca l’acqua corrente e l’energia elettrica è scarsa.

Qual è la reazione alle vostre missioni?
I medici e i pazienti sono molto grati per l’aiuto che portiamo. Sono sempre stato accolto in modo molto cordiale. Sanno che noi andiamo da loro solamente per portare aiuto umanitario. Anche se...

Anche se?
Io sono un sacerdote e ho anche altro da dare alla gente. Posso dare la speranza. E poi, a margine della nostra attività umanitaria, c’è la possibilità di avere un rapporto con i funzionari, con i medici, col personale ospedaliero. Facciamo capire che la nostra speranza è che non ci sia guerra nella penisola coreana. Io parlo di questo e parlo anche di riconciliazione tra il popolo del Nord e quello del Sud.

Le autorità sanno che è un sacerdote?
Sì, lo sanno. Vado vestito in clergyman. Non ho mai nascosto il mio essere sacerdote.

Può raccontare di qualche dialogo avuto con i pazienti?
Parlo il coreano molto bene e non ho problemi ad entrare in rapporto con la gente. Loro vedono che sono un prete e quando mi chiedono di dire una preghiera io la dico con loro. Gli incontri si svolgono nei reparti. Di solito sono presenti due o tre persone alla volta. Sono autorizzato a dire quello che voglio. Non mi è permesso, però, parlare di politica o di religione in quanto tale.

In che senso?
Se mi chiedono di questioni religiose io posso rispondere, ma non posso porle io come argomento. Ma questo non è importante. Penso che l’esempio sia molto più importante delle parole. Come sta dicendo il Santo Padre, occorre essere semplici e umili. Pensare ai poveri è esattamente la mia missione.

Perché?
Stare con la gente che soffre è stare con Cristo, perché Lui è lì con loro, davvero. Stare con loro: è questo che la Chiesa vuole che facciamo. Non dobbiamo dire qualcosa di particolare, ma dobbiamo mostrare la nostra vita. Loro sanno che l’aiuto arriva dalla Chiesa cattolica. Ma della Chiesa non sanno niente perché è da cinquant'anni che non ci sono sacerdoti nel Paese. La situazione è completamente diversa da quella cinese. Non ho mai visto un cristiano che si sia presentato come tale. Se l’avesse fatto con me, ne avrebbe pagato le conseguenze in qualche modo.

Ci sono molti cristiani in Corea del Nord?
Il Governo parla di circa 3mila cattolici su 23 milioni di abitanti. Ma non c’è in alcun modo una presenza visibile della Chiesa. All’inizio della Guerra di Corea, iniziata nel giugno del 1950, tutti i vescovi, i sacerdoti, le suore e i catechisti sono stati arrestati o uccisi. Tutto è stato bombardato: ci sono state più bombe sganciate sulla Corea del Nord che in tutta Europa durante la Seconda guerra mondiale. Entrambi i popoli del Sud e del Nord hanno sofferto moltissimo e quando sono arrivato in Corea del Sud, nel 1960, c’erano centinaia di rifugiati malati, anche loro, di tubercolosi.

Come è riuscito ad ottenere l’autorizzazione per queste visite?
Attraverso la Eugene Bell Foundation, una ong protestante americana. Loro facevano già questo servizio. Sono entrato in rapporto con loro attraverso la Catholic Relief Service, una ong cattolica. Ora vado per conto anche della Caritas internazionale.

Quali sono i suoi sentimenti quando va a Pyongyang?
Mi piace pensare che sto andando in un luogo di pellegrinaggio. Perché, se guardiamo con gli occhi della Chiesa, quello è un Paese imbevuto del sangue dei martiri e della gente che soffre. Per me è un pellegrinaggio.

E quando ritorna? Cosa pensa?
A volte mi sento molto scoraggiato, perché attorno a me non trovo molto interesse per quello che capita in Corea del Nord. Io sono entusiasta di raccontare quello che capita a Pyongyang, ma vedo che la gente ha molte altre cose per la testa. La mancanza di interesse e preoccupazione mi rattrista.

Oggi si parla della Corea del Nord per altre ragioni...
Sì, io vivo a Seul da trent’anni. Abito in una zona di campagna e vedo che la gente continua la vita di tutti i giorni. Non c’è la corsa nei negozi per fare scorte di cibo. La gente è tesa, ma calma. Quel che succede oggi è successo anche in passato. Io credo che le minacce della Corea del Nord siano motivate principalmente da ragioni di politica interna: ho l’impressione che Kim Jong Un stia cercando di ottenere il controllo della struttura di potere del Paese.

Qual è la cosa che l’ha più impressionata nelle sue visite a Pyongyang?
Vedere le facce dei pazienti appena dopo aver preso il farmaco contro la tbc. Dopo un attimo stanno già meglio. E si accorgono che qualcuno si è interessato a loro.

Le cure funzionano?
Nonostante il farmaco contro la tbc che portiamo sia molto forte, solo il 60 per cento dei malati sopravvive. Si ammalano anche molti giovani. E noi non possiamo arrivare a tutti perché non abbiamo abbastanza personale... E pensare che qualcuno preferirebbe che in Corea del Nord non ci andassi nemmeno.

Perché?
Dicono che non dovrei aiutare un Paese terrorista, che è un regime comunista e tutto il resto. Ma a me la politica non interessa. Io credo che questo sia quello che Cristo ci chiede di fare. Ci chiede di prenderci cura delle persone più trascurate. Io la chiamo “pastorale della presenza”: essere lì. C’è la dimensione religiosa, certo. Ma c’è il fatto che aiuti la gente e la gente sa chi sei tu. Tu gli dai vita, permetti loro di sopravvivere. Ma gli dai anche la speranza.

Ha parlato del nuovo Papa...
Sì, è davvero una boccata d’aria fresca! È umile e ci continua a dire di avere grande attenzione ai poveri. Poveri non solo materialmente, ma anche spiritualmente. Penso che avrà un grande effetto. Su noi sacerdoti, e sui laici.