La ragione dei siriani

«Non si possono appurare le responsabilità». Così ci spieghiamo la paralisi della comunità internazionale davanti alla tragedia del Paese di Assad. Dopo due anni e settantamila vittime, la strada per «conoscere» i fatti resta lontana
Alessandra Stoppa

Parlano le foto, i filmati, il numero dei morti, che è inequivocabile: settantamila. La guerra siriana non si ferma, anche se non si ha idea di dove possa spingersi ancora, di cosa sia rimasto da sterminare, perché è troppo quanto visto finora.
Eppure avanza, mentre noi ci areniamo su un dato di fatto: «La comunità internazionale è paralizzata», «Nessuno riesce neppure più a dire basta», si legge oggi sui giornali, ed è così. Ma forse, allora, le cronache e le immagini sono mute, e il fatto che ci zittiscano non è necessariamente un buon segno: non abbiamo niente da dire. Non restano nemmeno le analisi che valevano fino a poco tempo fa, nello schierarsi - se pur con cautela - tra ribelli e miliziani di Assad. Ora che, un villaggio violentato dopo l’altro, non si riesce più a distinguere la mano delle stragi, ora che la Commissione Onu parla di gas nervino utilizzato dall'opposizione, e subito dopo smentisce, aumentando il caos che cresce da due anni, ora ci si trova paralizzati: «Per l’impossibilità di appurare i fatti e le responsabilità», scrive oggi sul Corriere della Sera Viviana Mazza. È una fra le ragioni. Non si sa da che parte stare.

È un problema di approccio. Il modo con cui di solito affrontiamo i problemi, cercando di stabilire torti e ragioni, è un assetto utile, ma non basta: semplicemente, non dà gli strumenti per affrontare quello che succede. Torna alla mente don Giussani, in un giudizio speso più di vent’anni fa: «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”». Quando lo schema prevale sulla vita, l’esito è uno smarrimento, e lo svuotarsi anche d’ogni giudizio e iniziativa. Vale nel quotidiano, come sull’orizzonte della storia.

Ormai da un mese, è disperso proprio in Siria Domenico Quirico, inviato della Stampa. Lui stesso spiegava lo scopo del suo lavoro: testimoniare quanto siano «terribilmente vive» le cose che accadono. Ricordava che la priorità assoluta è che i fatti diventino coscienza, e che questo succede solo se la realtà ci è “vicina”, perché è lontana quando non ferisce più, e subito si cristallizza in categorie. Richiamava la necessità di rendersi conto di quello che accade: «L’uomo soffre». Il contrario di una considerazione generica.

Guardare il dolore degli uomini, da cui, giustamente, prendono le mosse tutti i commenti e gli appelli, non è l’alibi per non sbilanciarsi, per non prendere posizione. È la via per decidersi, fare passi. «Il capire viene dopo la compassione, non prima». È la direzione di una conoscenza autentica dei problemi e delle strade da percorrere. Com’è accaduto il 19 aprile, quando Ivica Dacic e Hashim Thaci, i primi ministri di Serbia e Kosovo, dopo sei mesi di colloqui, spesso duri, anche tesi, hanno deciso di agire diversamente da come fatto fino a quel momento, e hanno stabilito un accordo che è un inizio. Come è stato possibile? Lo scopo non era «risolvere le divergenze», si legge in un intervento dell’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari Esteri, Catherine Ashton, che ha seguito i colloqui: «Volevano trovare un modo per aiutare lo stesso gruppo di persone: decine di migliaia di serbi del Kosovo che vivono nel Nord del Kosovo».
Sembra niente, davanti alla storia dei Balcani. Ma, diversamente, lontano dalla carne che soffre e urge, resta la teorizzazione o «il grido che reclama le grandi cose», come ricordava nel 1981 l’allora cardinale Ratzinger ai politici tedeschi. Un grido che ha «la vibrazione del moralismo». E paralizza.