Fiorella Farinelli.

«Con la scuola non si gioca»

Con l'appuntamento del 26 maggio torna in primo piano la questione delle paritarie. È vero che lo Stato può farne a meno? Quali sono i veri motivi della consultazione? Risponde Fiorella Farinelli, ex Cgil e governo Prodi, esperta di istruzione
Alessandra Stoppa

Non ha voglia di scherzare sull’educazione.«È la cosa più seria. Soprattutto in piena crisi. Non si può giocare con rigurgiti di vecchie contapposizioni, senza guardare come stanno le cose». Fiorella Farinelli, esperta di problemi scolastici e formativi, è stata direttore Studi e programmazione del ministero dell’Istruzione nell’ultimo governo Prodi, a lungo sindacalista Cgil e per otto anni assessore all’Educazione e alle politiche giovanili del Comune di Roma. Dopo aver insegnato per una vita nel pubblico, oggi è prof volontaria d’italiano in una scuola per stranieri del privato sociale. A Tracce.it spiega perché sul Referendum di Bologna del 26 maggio, contro il contributo comunale alle scuole paritarie, non ci sia molto da discutere.

Crede che si stia “giocando” sull’educazione?
Credo non si sappia nemmeno bene di che cosa si sta parlando. Si parte in quarta con gli sbandieratori, senza capire che il problema delle scuole per l’infanzia è, anzitutto, molto specifico. Diverso da quello degli altri ordini e gradi. Il grosso della scuola privata paritaria è nel settore dell’infanzia. Questo perché? Perché con la “scusa” che non è una scuola obbligatoria, i soggetti pubblici si sono sottratti all’obbligo di garantire l’offerta scolastico-formativa, cosa che non hanno fatto su primaria, secondaria e superiore. Lo Stato, nel caso di Bologna soprattutto, ha avuto un’inerzia colpevole: mentre il Comune ha fatto la sua parte alla grande, con il 60% dell’offerta, se non il 61, lo Stato è sotto il 20. Il che è gravissimo, secondo me. Per cui, per prima cosa, se si parla della scuola per l’infanzia, bisogna commisurare qualsiasi giudizio a questa situazione.

Cioè al fatto che senza le paritarie il sistema non regge.
Non c’è nessun posto in Italia in cui, nella scuola per l’infanzia, la somma dell’offerta pubblica - Stato più Comuni - sia in grado di accogliere tutta la domanda. Anche perché, fortunatamente, la domanda è in crescita. Questo fa sì che le paritarie, laiche o cattoliche che siano, assolvono un compito che io reputo assolutamente pubblico. Ovviamente, è necessario che queste scuole siano integrate in un sistema, e che quindi rispondano a delle regole, che riguardano contratti, tariffe, democraticità... Un confessionalismo “esclusivo”, per esempio, è un problema, che a me è capitato di affrontare a Roma con una scuola ebraica. Ma, infatti, ci sono scuole che non possono stare all’interno della convenzione o che per scelta la rifiutano.

Lei parla del ruolo «pubblico» svolto dalle paritarie. Ma uno dei pilastri della battaglia referendaria è il discusso «senza oneri per lo Stato»...
La questione è chiarissima, non ci dovrebbe essere discussione. Il contributo con cui il Comune aiuta queste scuole a stare aperte e a stare dentro determinate regole è meno di un decimo di quello che spenderebbe per bambino se espandesse la sua offerta. Quindi, non c’è nessun onere anomalo. Al di là del fatto che l’articolo 33, almeno nella mia interpretazione, stabilisce che lo Stato non è obbligato a finanziare le scuole private, ma non è che glielo vieta. L’articolo, poi, dice che non deve essere a carico dello Stato l’istituzione, ma non il supporto al funzionamento. Tant’è che tutti i ricorsi fatti alla Corte Costituzionale sono stati respinti. Dunque, chi ritiene che, con quel milione e rotti di contributo, il Comune potrebbe espandere l’offerta pubblica, non sa di cosa parla. O quanto meno, non vuole praticare la matematica elementare. Il vero problema è un altro: che alcune scuole si trovino in difficoltà, alzino le tariffe, introducano elementi di selettività, e, in qualche caso, chiudano. Questa è la cosa seria. Quindi, per considerare il bene comune, e considerarlo in un contesto dato, io mi preoccuperei di altre cose, piuttosto che di promuovere un referendum.

Evidentemente si promuove un referendum per altri motivi.
Per quello che sto capendo, da fuori, s’intrecciano due ordini di ragioni. Da una parte, quelle di natura per così dire politico-culturale. La difesa dell’articolo 33 è una sorta di brand, di marchio di alcune forze politiche, per cui, naturalmente è un problema che non si risolve mai... Chi nel Paese non ha mai digerito la legge 62 del 2000, che allarga il sistema integrato a regia pubblica a tutta la scuola privata paritaria, lo ritira fuori in modo ricorrente... Questo è il problema di una cultura laicista; direi, più che altro, statalista.

E le altre ragioni?
Ho l’impressione che a Bologna il clima sia avvelenato da un problema che è vissuto anche da altri Comuni: ci si trova ad aver fatto troppo per la scuola dell’infanzia. E ora, con il Patto di Stabilità, non si riescono a pagare i dipendenti. Non solo non ci si può sviluppare, ma si è in difficoltà nella tenuta del sistema messo in piedi. Mi sembra di capire che a Bologna il Comune abbia fatto una proposta, che non so a che punto sia in termini di delibera, per affrontare il problema. Cosa che ha prodotto reazioni di diffidenza e timore da parte delle lavoratrici delle scuole comunali. Per questo credo che nella vicenda del Referendum ci sia anche una benzina di tipo “sindacalista”. Niente di nuovo. Sono reazioni difensive, di auto-tutela, ma che portano a considerare il contributo di soldi pubblici a ciò che non è statale come un’offesa, un attacco, un elemento di rischio. La cosa triste è che torni fuori questa specie di rigurgito, di statalismo, di cose vecchie, non europee, in cui non si dice mai la verità, e in cui non si guarda come funzionano le cose.

Cosa ci perdiamo così?
Se il problema è dire che tutto lo statale è buono e che sicuramente tutto il privato è cattivo, anticostituzionale, ci perdiamo tutto quello che si potrebbe andare a vedere. Semplicemente non si tiene conto di che cosa accade nelle scuole, non si considera la fotografia che fanno delle nostre scuole le indagini internazionali, non si fanno i controlli che servono, non si approfondisce il fatto che ci siano, per esempio, scoraggiamenti delle iscrizioni di determinate fasce sociali, di determinati ragazzini problematici... Come, per esempio, non si guarda tutto il pezzo della scuola secondaria superiore, privato convenzionato, che intercetta la parte debole della scolarità e la porta alla qualifica professionale. Questo, di nuovo, perché gli statalisti sono in gran parte “scolasticistici”, per cui non la vedono questa realtà educativa che si occupa di formare professionalmente i giovani. Per loro la scuola è il liceo, in sostanza.

Lavorare per il bene comune coincide, secondo lei, con questo “guardare” problemi e realtà?
L’intero sistema scolastico italiano ha moltissime pecche, che non si riescono ad affrontare perché da un Governo all’altro si rimbalzano la palla, e non si va “dentro” a vedere. Ma l’educazione è una cosa molto seria, si tratta di vedere chi è capace di farla e chi no. Indipendentemente da chi è. Io insegno in una scuola dell’associazionismo sociale, gestita dai padri comboniani. Ho una classe che sembra l’Onu, per intenderci, e sono certa che svolgiamo un ruolo pubblico. Ma non è una questione di “solidarietà”: c’entra con il fatto di com’è il nostro Paese e di come sarà, di cosa può diventare o no.

Che conseguenze avrà il Referendum?
Il problema sono quelle che ha già avuto. Ha prodotto scompiglio, creando una divisione nell’opinione pubblica. Se poi, come vogliono le previsioni, i referendari vinceranno, non nell’immediato, ma nel lungo periodo, avrà altre conseguenze. Tutto mentre le forze politiche passano il tempo a trovare la propria collocazione. In realtà, perché non sanno dove stanno. Si definiscono solo per differenza.

Cosa dice il caso di Bologna alla politica nazionale?
Mostra di certo la fragilità, l’incapacità di un approccio pragmatico della politica: lo staccarsi dal problema reale. Ma non lo dico in maniera grillesca, per dire che i politici stanno lì a prendere i soldi... Dico che non si guardano i fatti, i dati. Sembra che siano per la politica come i lampioni per gli ubriachi: non servono a far luce ma ad appoggiarsi. Mi colpisce che ora si usi ovunque questo aforisma di Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Il problema qui, però, è che non si guarda né il cielo né la terra. Per cui, il caso bolognese è un paradigma per la politica nazionale non tanto perché abbia messo sotto scacco Bersani o altro, ma perché il bene comune, come dicevamo, riguarda questo vedere “dentro” i fatti. Se a Bologna le paritarie sono il 21%, allora prima di metterci le mani mi si deve dire dove vanno quei 1.700 bambini, che l’anno prossimo saranno 1.800. Questo fa parte del buon governo, del governo intelligente, responsabile.

Il governo del fattibile, il pragmatismo.
Non dico che la politica debba occuparsi solo del fattibile: deve essere di idee, ma questo non significa ignorare i fatti. Sono cose serie. E in piena crisi non si gioca sulle cose serie. Invece si riduce tutto al problema dei veti.

Da che parto sto?
Sì. Io lo vedo a scuola.

Può fare un esempio?
Noi accettiamo che ci siano corsi di sole donne, perché vengono da Paesi e famiglie che non le mandano in contesti misti. Io non sono certo d’accordo, perché ho un’idea del tutto diversa... Ma bisogna misurarsi con quello che c’è. Se dovessi stare solo con quelli che la pensano come me, è tutto finito.