Giovanni Paolo II e Lech Walesa.

Quell'impeto di libertà da cui è partito tutto

Luigi Geninazzi, inviato de "Il Sabato" e di "Avvenire", racconta da testimone diretto i fatti che portarono alla caduta dei regimi dell'Est Europa. Nel suo libro "L'Atlantide rossa" aneddoti, volti e storie di uomini che cambiarono la storia
Maria Acqua Simi

Quando cadde il muro di Berlino, il 9 novembre 1989, Luigi Geninazzi c’era. Finiva quel giorno un mondo che tutti pensavano indistruttibile. In poco tempo, invece, era sparito. Come la mitica Atlantide. In realtà la fine del comunismo era maturata nel corso di lunghi anni di sofferenze e di lotte non violente condotte da migliaia di cittadini, in forme più o meno organizzate, al prezzo di grandi privazioni e sacrifici. Quel cammino verso la libertà Luigi Geninazzi l’ha vissuto da testimone diretto, come inviato speciale sul campo (prima per Il Sabato e poi per Avvenire): dai porti di Danzica fino a Varsavia e Mosca, da Praga a Vilnius, da Berlino a Bucarest. Nel suo ultimo libro, L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa (Lindau, pp.288, euro 19), Geninazzi ripercorre tutto questo raccontandoci grandi eventi e piccoli aneddoti di vita quotidiana, personaggi storici visti da vicino – come Giovanni Paolo II, Lech Walesa, Vaclav Havel – e anonimi coraggiosi e intrepidi. Il risultato è la cronaca appassionata di un decennio fondamentale del XX secolo, che segnò il passaggio dall’epoca dei blocchi contrapposti all’Europa dei nostri giorni. Con lui, vi raccontiamo come è nato questo libro. E perché merita di esser letto.

Partiamo dal titolo. Perché L’Atlantide rossa?
Perché nell’immaginario collettivo, soprattutto dei giovani che non hanno vissuto quegli anni, il mondo comunista sembra solo una cosa molto lontana, opprimente e minacciosa. Nessuno pensava che potesse cadere. Invece è scomparso in brevissimo tempo: proprio come diceva Platone della mitica Atlantide: un mondo che nessuno credeva potesse finire d’un tratto si è dissolto.
È vero, quella fase è chiusa: il mondo bipolare, la guerra fredda... ma io in quegli anni, gli anni Ottanta, c’ero. Non è solo questione di raccontare come è caduto il comunismo, ma di raccontare il come e il perché è caduto. Perché all’epoca c’era un'umanità diversa, di cui io ho profondamente nostalgia.

Nostalgia? Di che cosa esattamente?
Di quell’impeto di libertà che vidi in Polonia, quell’impeto da cui partì tutto. Andai a Danzica per la prima volta nel 1980, inviato de Il Sabato. Era appena iniziato questo enorme movimento sindacale nei porti della città: era la prima volta nell'impero sovietico che accadeva. Eppure io trovai laggiù delle persone tranquille, che dicevano: «Noi ci sentiamo libere interiormente e per questo chiediamo più libertà». È questo il segreto non solo di Solidarnosc, ma anche di tutti i movimenti che sono nati poi nell’Est Europa fino alla caduta del comunismo nel 1989: era una rivoluzione autenticamente popolare, perché milioni di persone scesero in piazza. Una rivoluzione accaduta senza rompere un vetro, senza un minimo di violenza. Questo fu il vero schiaffo: la violenza, la repressione, la brutalità, era tutta da una parte e cioè quella del potere. Ma dalla parte del popolo che si ribellava non ci fu la tentazione della violenza, nemmeno di quella verbale. E questo - se lo confrontiamo con quello che sta accadendo ai giorni nostri, specie in Egitto - è una cosa di cui non si ha memoria ma che va raccontata. Soprattutto ai giovani che non lo sanno. Tutti conoscono la data della caduta del muro di Berlino, ma quello fu solo l’epilogo.

La prefazione del libro l'ha scritta Lech Walesa...
Sì, ci conoscemmo allora e siamo rimasti amici. Lui ha descritto molto bene cosa fosse Solidarnosc, con una frase bellissima: «Solidarnosc è nato da un'idea molto semplice. Se si è schiacciati da un peso troppo grande, devi cercare qualcuno che ti aiuti a portarlo». Così Walesa racconta di aver fatto questo per molti anni, nella clandestinità. Prima furono in pochi, ma in poco tempo diventarono milioni. Come fu possibile? Tutti i lavoratori polacchi entrarono in Solidarnosc. Perché? Perché ci fu l'amicizia di Giovanni Paolo II, che disse: «Non abbiate paura!» e la gente all'improvviso scoprì che non aveva paura. Nella prefazione poi Walesa fa un'altra riflessione interessante, quando dice che oggi ci vorrebbe una Solidarnosc globale. Cioè, se all'epoca ci furono i famosi “21 punti di Danzica” dove si chiedevano pane, più libertà per tutti e per la Chiesa...ecco, oggi lui sostiene che ora bisogna fare i conti con un’Europa che si trova di fronte diverse sfide, dall’unità europea al Medio Oriente.

Il libro come si sviluppa?
La storia va dal 1980 - dagli scioperi che nacquero a Danzica nell'agosto del 1980- al 1989 con la caduta del muro di Berlino, l’incontro di Gorbaciov con Giovanni Paolo II. E poi l’appendice sanguinosa della rivoluzione pacifica in Romania contro Ceausescu. Come racconto tutto questo? Intrecciando aneddoti personali con fatti storici. È un libro per capire cosa è successo: racconto fatti, volti, storie. Perché a rivederla adesso, la caduta del comunismo è stata una cosa che nessun romanziere avrebbe potuto immaginare. Dei sistemi sistema così chiusi, ottusi e repressivi vennero spazzati via nel giro di pochi mesi, con un effetto domino: caddero uno dopo l'altro. E questa è una storia che merita di essere raccontata.

C'è qualche episodio che vale la pena raccontare?
Io venni inviato dal Sabato a Danzica. Passai due settimane con gli operai in sciopero: è stata l'esperienza più bella della vita. All’epoca non c’era internet: se tu volevi sapere le cose, dovevi essere lì. Dovevi vivere con quegli operai, condividere con loro quello che stava accadendo. Era una realtà talmente travolgente che non aveva bisogno di artifici retorici per essere raccontata. Il discrimine sta proprio qui, come diceva Gregorio di Nissa: «Solo lo stupore conosce». Ecco la radice di tutto: la capacità di stupirsi. E questo ho voluto raccontare.