Barcone di migranti siriani.

Era Dwah, e scappava dalla guerra...

Lavorava in una farmacia a Damasco. Profuga, è arrivata in Italia per morire poche ore dopo. La famiglia ha donato i suoi organi. Ecco cosa ha visto chi ha incontrato questa gente: «Tutto quello che serve per vivere»
Paolo Perego

Una preghiera stonata. A due voci, in due lingue. Arabo e italiano, preghiere cristiane e islamiche, davanti al corpo ormai inerte di Dwah. Qualche infermiere, due ragazzi e un uomo con gli occhi grati e pieni di lacrime. Questo avrebbe visto chiunque fosse passato nelle ultime ore al policlinico Umberto I di Siracusa, sbirciando dentro la porta di una stanzetta del reparto di rianimazione. Il “prima” sono le tante barche che dall’inizio di agosto hanno incominciato ad approdare sulle coste orientali della Sicilia, rotta inedita per il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ma stavolta tra eritrei, egiziani e somali, ci sono anche i profughi siriani, scappati da una guerra che da due anni incendia il Paese e da un futuro che si prospetta ancora più drammatico. Oltre due milioni, secondo l'Onu, le persone che hanno già lasciato il Paese di Assad. «Abbandonano le loro case svendendo tutto. Per non tornare più», dice don Carlo D'Antoni, parroco in un quartiere a nord di Siracusa che da tempo ha aperto la sua chiesa e la sua casa a questi stranieri venuti dal mare: «Di quelli arrivati quest'anno sulle nostre spiagge, circa seimila, un terzo, vengono da lì. E raccontano di intere città e paesi che non esistono più, rasi al suolo. Di gente che arriva in casa e ti chiede da che parte stai, senza far capire da che parte stiano loro. E se la risposta è sbagliata...».

Scappava dalla guerra, Dwah. Ed è morta per la guerra. A quarantanove anni. Lavorava in una farmacia di Damasco, in Siria. Poi sono scoppiate le rivolte, le battaglie. Il marito faceva il muratore in proprio, piccolo imprenditore edile. Non si può rimanere. Pochi bagagli e due figli per mano, 12 e 15 anni, scappano. Un terzo figlio, più grande, sta in Svezia da qualche tempo. Si può andare da lui. Forse si può ricominciare a vivere...

Del viaggio si sa poco, da dove siano partiti, che giro abbiano fatto... Solo che sulla barca c’era ressa. E lei è caduta. Forse è stata schiacciata. O forse è caduta proprio per quel mal di testa fortissimo che l’ha accompagnata fino allo sbarco sulle coste siciliane, nei pressi di Siracusa, la settimana scorsa. Il marito deve aver chiesto aiuto subito. Quel mal di testa probabilmente era insopportabile. Arriva in ospedale, e ci vuol poco a capire per i medici che ha una emorragia cerebrale molto grave, proprio nella zona dove si regolano cuore e respiro. «Quello che è accaduto poi... è un miracolo», dicono tanti tra infermieri e dottori che l’hanno curata fin dal suo arrivo. Poi è arrivato il coma. Pochi giorni. Martedì mattina, il marito e i figli hanno acconsentito all’espianto degli organi. Non c’era più nulla da fare.

Enrico Valvo è uno dei medici dell’Umberto I che sono stati con lei in quei giorni. «È stato un susseguirsi continuo di fatti. A partire dal rapporto con quella donna. Era difficile capirsi all’inizio, per la lingua. Qualche aiuto nelle traduzioni, grazie a un cognato maltese e a un medico palestinese. Ma alle volte bastava uno sguardo. Anche col marito e coi figli. Che dignità. Mai una parola di rabbia, di disperazione. Solo tanti “grazie”, detti di continuo, per qualunque cosa si facesse per lei e per loro, che avevano bisogno di tutto».

Solo grazie. Fino alla fine. Anche davanti alla scelta, quasi assurda per la loro tradizione, di donare gli organi di Dwah. E di far tornare a vivere tre persone. E appena dopo quella decisione, ecco la preghiera insieme, raccontata da chi c’era. «Spontanea, davanti a qualcosa di imponente che stava accadendo davanti agli occhi. E che non ha ancora smesso di muovere la gente», spiega il medico, pensando alla mobilitazione di tanti, anche in Comune, per il trasporto della salma a Malta, dove Dwah verrà seppellita.

Nessuna remora a dirlo: «Questi giorni sono stati per me quel “toccare la carne di Cristo” che diceva il Papa Francesco a Pentecoste, e misteriosamente passava nell’incontro con Dwah e i suoi». Gli stessi giorni in cui il Pontefice alzava la voce da Piazza San Pietro contro la guerra: «Era un provare sulla mia pelle che cosa vuol dire che la pace nasce dall’incontro con gli uomini. Davanti a quei volti c’era tutto quello che desideri per vivere tu. E ti scopri addosso una gratitudine continua». Come davanti a un bambino di dieci anni, scappato anche lui dalla Siria col padre. Sono arrivati in questi giorni, disidratati e denutriti dal lungo viaggio su uno di quei barconi che ormai ogni giorno approdano nel siracusano. Il padre messo peggio, forse perché ha badato più al suo piccolo che a se stesso. Vengono ricoverati entrambi e il piccolo, davanti agli infermieri e ai medici che cercavano di tranquillizzarlo con sorrisi, prende la brioche a cui ha dato solo un morso e si incammina verso la porta: «Cercava il papà. Era in un’altra camera», racconta un’infermiera. Lo accompagnano. Si avvicina al padre, sdraiato su una barella del Pronto Soccorso. Gli accarezza la mano, e gli allunga la brioche. Il padre la rimanda verso la bocca del figlio, ma il piccolo insiste. Piange il padre. E piange chi li vede. Non per la tristezza, ma per tutta la bellezza di qualcosa di finalmente umano, che sfonda perfino la barbarie di una guerra senza senso.