Stefano Colli-Lanzi.

«Il desiderio è la leva per ripartire»

Il tema caldo della disoccupazione giovanile. Oggi «i ragazzi non si pongono il problema del "dopo"», ma rimangono alcuni elementi sui quali poter scommettere. A partire dall'apprendistato. L'intervista a Stefano Colli-Lanzi (Gi Group)
Paolo Perego

«Debolezza personale, competenze spesso non adeguate, e uno scollamento forzato tra il periodo della formazione e la prospettiva lavorativa». Stefano Colli-Lanzi individua così tre chiavi di lettura del fenomeno di una disoccupazione giovanile che nel nostro Paese ha raggiunto livelli record e che continua a crescere: quasi settecentomila gli under 25 che non riescono a entrare nel mondo del lavoro, con un tasso che sfiora il 42%. «L'altra faccia della medaglia di cui si parla meno sono gli inoccupati, ovvero quelli che neppure cercano un posto, che fanno schizzare la percentuale di giovani inattivi al 60%». Amministratore delegato di Gi Group, una delle più grandi agenzie interinali, che da anni opera in Italia e all'estero sul tema del lavoro temporaneo che, dato del 2012, ha avviato ad un impiego 160mila persone e in oltre 15mila aziende, e docente di Economia Aziendale alla Cattolica di Milano, con il binomio "lavoro e giovani" ci ha a che fare tutti i giorni. «Ci troviamo in mezzo a un fenomeno che è letteralmente esploso, ma di cui non ci si può stupire più di tanto: era già inscritto nell'epoca precedente, alle voci scuola, economia, politica... Sembrava possibile, qualche anno fa, trovare una sistemazione per tutti, anche non produttiva. Ora questo non è più sostenibile».

In che senso?
Lo vediamo. C'è un sistema che protegge chi è dentro il mercato del lavoro e penalizza chi è fuori. È sempre stato così, in Italia, ma le politiche in materia degli ultimi anni lo hanno accentuato: non si è mai voluto toccare il contratto a tempo indeterminato e si è voluta smontare la flessibilità in entrata aprendo le porte a lavoro nero e abuso di stage come tentativo di controbilanciare questa difesa. Un tema culturalmente rilevante, questo. Esempio: io impresa offro un lavoro. Se prendo un giovane in stage, magari per tre mesi, tendenzialmente lo vedrò solo come una risorsa a basso costo e non come occasione su cui investire. Attenzione, non è sfruttamento in senso stretto: entrambi, datore di lavoro e stagista, lo fanno per opportunità, per contingenza, una forma con cui entrambi risolvono il loro problema nel breve termine. Da un lato, non c'è l'idea di investire su di sé in chi si offre, dall'altro non c'è l'idea dell'impresa di investire sulla persona. E questo fa male al lavoro.

E la crisi ha buttato benzina sulla brace...
Sì, generando un'oggettiva mancanza di lavoro. Ma anche l'allungamento del periodo pensionistico ha influito sull'accesso dei giovani. Se c'era un minimo di possibilità, con la riforma Fornero si è messo il lucchetto anche lì, non più di due anni fa: oggi non esce nessuno e le aziende non assumono ricambi. E qui emerge la debolezza del tessuto dei giovani, che poi è il frutto di quello che abbiamo fatto noi in questi anni. In fondo, raccogliamo il seminato.

Debolezza dei giovani?
Non voglio generalizzare, ma vedi tanti ragazzi che sempre meno hanno un background famigliare che li introduca alla realtà. Ragazzi deboli, che sembrano quasi impauriti. Che hanno come strumento di difesa l’allontanamento dalla realtà e il rifugio nel virtuale, nel sogno. Perché, la realtà, non sono capaci di affrontarla, ti dicono che fa schifo. E questo atteggiamento, se prima era legato a particolari elementi di disagio, ora sta diventando sempre di più un fatto sociale diffuso.

E il fronte formativo?
Io insegno in Cattolica. Il target di chi fa Economia e Commercio, anche se è semplicistico dire così, penso sia di livello medio-alto. Ma quello che vedo a volte è impressionante. Correggo, magari, trecento elaborati e spesso hanno problemi: scrittura, spazi, linguaggio, ortografia, uso dei tempi verbali, organizzazione della risposta, ordine. E ti chiedi da dove arrivano, questi ragazzi. Non dico che non abbiamo voglia di studiare, di imparare. Ma così, che strada possono fare?

Ma ne sono coscienti?
Per alcuni, ma sempre di più, il periodo della formazione, scuola o università, sembra vissuto come una parentesi, e non come tappa di un percorso. Come se non andassero all'università con in mente il futuro. Per carità, non è che a diciotto anni, al momento della scelta, si può pretendere che per forza uno abbia le idee chiare… Ma a volte prevale l'idea che l'università o la scuola siano come isole. Ci vado, studio, mi diverto se riesco. E il tema del "dopo" evito di pormelo. Manca, a mio avviso, un lavoro personale, una domanda aperta. Spesso, per lo meno. Sia a livello di scelta del percorso, sia di come poi questo viene vissuto.

Qual è la leva che scardina questo atteggiamento?
Il desiderio. Che c'è, in tanti altri ragazzi lo vedi. Magari è sopito. Ma si può tirar fuori, si può aiutare a emergere. Perché è come schiacciato. Al massimo, a volte, si esprime in astrazioni. Ma più spesso è come se fosse impaurito e rassegnato...

Ma per un certo verso è inevitabile, no? La realtà è dura. E chi ha ambizioni e sogni, dal futuro lavorativo fino al desiderio di metter su famiglia, spesso è rimbalzato dalle difficoltà sempre più opprimenti. Qual è la via per uscirne?
Da una parte abbiamo una generazione che ha le potenzialità, perché il desiderio, appunto, c'è. Solo che è sempre stata orientata a vivere "passivamente", come dicevamo. Quando la situazione era migliore, anche se era comunque un nonsenso, si aveva l'illusione che potesse reggere. Oggi viviamo nell'inerzia di questo. Solo che la situazione non è più come prima. Si possono fare degli interventi. Se uno deve dimagrire, un po' di moto lo deve fare. Ma non si può fargli scalare l'Everest da zero. Non ce la farà mai. Occorre un percorso che sia fattibile. Si potrebbe iniziare dal correggere la difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro, per esempio, rendendo ancora più conveniente l’apprendistato, che è uno strumento bellissimo, un contratto pulito che ha dentro il respiro da indeterminato e la necessità di investire reciprocamente tra imprenditore e lavoratore.

Può bastare?
È necessario anche stimolare i giovani, che per quanto rassegnati possano essere, basta pochissimo a farli ripartire...

Come?
I ragazzi sono lo specchio della proposta che ricevono. Occorre dunque un’educazione, occorrono maestri in grado di far fare loro esperienze positive, di trasformare il desiderio in domande e condurli in un percorso personale, anche dentro la disponibilità ad un sacrificio. Quanto agli strumenti, certamente bisogna impostare il sistema formativo in modo da ridurre il disallineamento tra scuola e lavoro e puntare sull’apprendistato come strada maestra per l’inserimento dei giovani. È poi in arrivo nel nostro Paese un’opportunità da non perdere per creare finalmente una politica del lavoro “attiva”, in grado cioè di destare la persona e inserirla in un percorso capace di aumentarne anche l’impiegabilità. Si tratta del “Piano di attuazione italiano della Garanzia per i Giovani” che è stato redatto dal Governo sulla base della Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea e che vedrà a breve la luce nella sua forma definitiva; un’iniziativa che nasce proprio dalla constatazione delle problematiche appena citate e che prova a fornire risorse economiche e indicazioni operative per migliorare il funzionamento del nostro mercato del lavoro, nel tentativo di dare - finalmente - ai giovani un’opportunità professionale o formativa entro 4 mesi dal termine del precedente percorso. L’aspetto più importante, anche culturalmente, è che in questo Piano si punta con chiarezza al risultato - al placement - e che si cominciano a creare le condizioni necessarie per far cooperare il pubblico e il privato nel raggiungimento di questo obiettivo, oggi più che mai decisivo. Per questo occorre investire, tornare alla cultura contadina: seminare per raccogliere. Non si può mangiare il seme. Se mangi il seme non mangi più nulla dopo. Certo, la politica deve lavorare per dare strumenti adeguati. Ma la responsabilità è di tutti. A partire dai lavoratori, salendo alle imprese e così via. Tutta la società, a ogni livello, è chiamata a rispondere.