Qualcosa che sia all'altezza

C'è qualcosa oltre il dibattito che accompagna la sentenza della Corte: il desiderio di Elena è il nostro. Uguale. La solitudine, la stessa. Chi può abbracciarla fino in fondo? Cosa può aiutarci a viverla? Parlare di Gesù o incontrare il Suo sguardo?

E dopo? Un minuto, o un giorno, o una settimana dopo? È caduto un altro limite, si è aperta un’altra breccia, una strada in cui infilarsi per realizzare un desiderio grande e bello. Ma dopo? Passata la soddisfazione per aver ottenuto ragione e la scoperta che «il nostro dolore non è stato inutile» perché servirà «per il bene e i diritti di tutte le coppie», che cosa succede? Cosa resta?

Mette un brivido leggere l’intervista di Repubblica a Elena, la donna di Catania da cui è partito l’iter che ha portato alla sentenza di ieri della Corte costituzionale e all’abolizione del divieto di fecondazione eterologa. Un brivido che parte già dal titolo: «Trattati per anni da delinquenti». C’è poco di ideologico, dentro. C’è molto dolore e pena e un impeto tali che è difficile non mettersi nei suoi panni, non provare almeno un istante a immedesimarsi in lei. E a desiderare di abbracciarla.

Il contraccolpo per la scoperta di essere in menopausa precoce, a 34 anni: «Mi sentivo fallata, persa. Non riuscivo proprio a crederci, mi sembrava che il mio corpo mi avesse tradito, non mi riconoscevo». La «solitudine di chi è sterile», anche se ha già in casa una bimba. I viaggi all’estero fatti di nascosto, «mentendo ad amici e parenti, inventando vacanze o impegni di lavoro inesistenti» per trovare un posto dove si potesse tentare una strada vietata dalla Legge 40. Persino la scelta di «vincere il pudore e portare tutto in tribunale», che non dev’essere stata una cosa semplice.

«Un calvario», dice Elena, più volte. Ed è vero, se ti metti nei suoi panni lo capisci. Ma c’è un’altra cosa che colpisce nella sua storia: ed è quel desiderio così potente che ha permesso a lei e al marito di affrontarlo, quel calvario. Addirittura di farlo mentre ne vivevano un altro, perché hanno presentato pure una domanda di adozione internazionale e chi percorre questo iter sa di che cosa si tratti, di quale alternanza di speranze e docce fredde sia e di che forza ci voglia per portarlo avanti. Di che desiderio potente e vivo. Così potente e vivo che viene da chiedersi: che cosa può essere all’altezza di quel desiderio? Se è così forte da spingere a vivere quel calvario, ad attraversare quella fatica, che cosa può colmarlo? Una vittoria in tribunale? Un “diritto” riconosciuto? Persino l’arrivo di un figlio, se arrivasse. Basta? «Abbiamo aiutato a ridare speranza», dice Elena. E in un certo senso è vero. Perché l’impeto è quello, il cuore vive di quello, può guardare il futuro solo così: con una speranza. Ma che cosa è quella speranza? È sufficiente una legge diversa a sostenerla?

È da lì che viene il brivido. La sentenza della Corte Costituzionale è discutibilissima. Apre voragini in una legge fatta per tutelare legami che non si possono perdere. È una ferita aperta nella società, non solo nella vita di chi ha a che fare con il problema di una maternità che non arriva, e può portare a conseguenze gravi che molti commentatori stanno già facendo rilevare. Ma al netto del dibattito, di torti e ragioni, quella domanda di felicità così potente resta. Tale e quale.

Puoi togliere un altro paletto, imboccare una nuova scorciatoia e persino abbracciare il regalo di un bimbo arrivato alla fine di un calvario vero, vissuto non “per modo di dire”, e quel desiderio rimane, identico. Lo vediamo quando abbiamo nelle braccia un figlio appena nato. Resta, il desiderio. Anzi, si amplifica. Si allarga anche a quel bimbo, perché desideriamo la felicità pure per lui. Così come resta e si allarga il desiderio di generare. E a volte diventa persino più acuta la «solitudine della sterilità» che ci assale tutti, genitori o meno, in tanti momenti durante la giornata.

Il desiderio di Elena è il nostro. Uguale. La solitudine, la stessa. Chi può abbracciarla fino in fondo? Cosa può aiutarci a viverla? Parlare di Gesù o incontrare il Suo sguardo?