I quattro profughi a Erbil.

Cristiani in Iraq: «Meglio morire che convertirsi»

Hanno occupato le loro case, sono stati minacciati e messi in carcere. La testimonianza dei profughi sfuggiti dalle milizie dello Stato Islamico. «Ci chiedono di diventare musulmani e al nostro no ci picchiano forte»
Lorenzo Cremonesi

«Meglio morire che convertirci», affermano con aria decisa i cristiani iracheni sfuggiti dalle milizie dello Stato Islamico. Considerano un “traditore” chi per salvare la vita, o anche solo per tenersi soldi e proprietà, ha pronunciato la “Shahada”, la dichiarazione di conversione all’Islam. E dimostrano una fede e una determinazione nel mantenerla che per noi europei figli della secolarizzazione può sembrare una cosa del passato, superata, una memoria di tempi antichi. «Per un mese ci hanno provato. Ogni giorno venivano a dirci che dovevamo diventare musulmani. Una mattina gli abbiamo detto che forse era meglio se loro si battezzavano. Ma ci hanno picchiato più forte», raccontano tra i tanti quattro uomini del villaggio di Batnaia, posto a una quindicina di chilometri a ovest di Mosul.

Sono Salem Elias Shannun di 57 anni; Habib Noah di 66; Najib Donah Odish, 67, ed il 65enne Yohannah Kakosh: assieme sono arrivati tre sere fa a Erbil, dopo aver convissuto per 22 giorni con i miliziani jiahadisti che occupavano le loro case, quindi essere rimasti rinchiusi 12 giorni nel carcere di Hawuja e infine raggiunto le postazioni curde a Kirkuk. La loro testimonianza offre nuovi elementi per delineare il comportamento degli estremisti sunniti nei confronti delle altre fedi. Ma aiuta anche a ricordare quali e quanti tabù ancestrali sono messi in gioco a causa di questa rivoluzione che sta soffiando persino oltre i confini del Medio Oriente.

Sta per esempio emergendo che le donne yazidi violentate in molti casi preferirebbero morire piuttosto che affrontare l’onta del “disonore” nelle loro stesse comunità famigliari. Ieri dall’ospedale di Zakho, nell’Iraq curdo non lontano dal confine con la Turchia, è giunta la segnalazione di tre giovani sfuggite ai mercati del sesso nella zona di Mosul che hanno tentato il suicidio. Una è morta. La cosa non è strana. Incontrando i famigliari delle donne rapite nei campi di sfollati attorno a Dohuq, specie mariti e fratelli, non è difficile sentirsi dire che preferirebbero un «accurato bombardamento americano che uccidesse le donne assieme ai loro aguzzini», piuttosto che vivere con la vergogna dello stupro. Per i cristiani le sofferenze sono meno drammatiche. Sino ad ora non sono emerse tra loro prove concrete di donne ridotte a schiave sessuali o di massacri di uomini. Eppure, i tabù e i valori messi in gioco appaiono altrettanto importanti. «La prima settimana dopo il loro arrivo a Batnaia,i jihadisti ci hanno lasciato in pace.

CONTINUA A LEGGERE SU CORRIERE.IT