Mario Mauro tra i militari curdi.

«La casa dei cristiani è il mondo»

Il miracolo di comprensione e accoglienza da decine di giovanissimi volontari. Vescovi che, instancabili, consolano il proprio popolo. Ad Ainkawa non c'è solo il terrore. La cronaca del viaggio del senatore Mario Mauro tra i profughi cristiani e yazidi
Mario Mauro

Ainkawa. Alla periferia di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. È zona caldea, si parla aramaico più che curdo o arabo. Nella chiesa di Saint Joseph monsignor Bashir Warda, arcivescovo di Erbil, e monsignor Nona, vescovo di Mosul, ci accolgono mescolati a centinaia di bambini, accompagnandoci tra i profughi yazidi e cristiani che, a migliaia, affollano il campo, le scuole, la chiesa stessa. Undicimila famiglie con una media di sette-otto componenti che vivono da mesi ammassati gli uni sugli altri, gestiti in un miracolo di comprensione e di accoglienza da decine di giovanissimi volontari che ci appaiono, più ancora dei fieri peschmerga curdi, la vera risposta ai folli assassini di Isis, tanto sono appassionati ed amorevoli nei confronti di questi sventurati.

I vescovi consolano instancabili il proprio popolo ma anche i tanti arabi sunniti che sono fuggiti davanti alle angherie dei jhadisti ceceni, malesi, kossovari o yemeniti che compongono l'internazionale del terrore. Sono tristi perché almeno dieci famiglie al giorno lasciano il Paese per trovare un futuro possibile magari in Canada o in Europa. Famiglie cristiane.

Qui ad Ainkawa si consuma infatti forse l'ultimo atto della persecuzione dei cristiani iracheni. A Mosul sono rimasti in quindici e non se ne hanno notizie. Erano in centomila fino al 2003. Erano 45mila a Karakoch. Sono fuggiti tutti. Tutti quelli che sono riusciti a mettersi in salvo. Hanno occhi pieni di lacrime e di dolore che rifiorisce però in sorrisi stupendi quando diciamo che siamo lì per aiutarli, per dire al mondo cosa succede. Per difenderli.

Anche le autorità della regione autonoma curda sentono il dramma dei cristiani come una ferita alla propria identità. Il ministro degli interni congedandomi mi dice: «Insista con il vescovo Warda quando lo vedrà. Non lasciate andar via i cristiani o sarà la fine di un Iraq federale». I cristiani infatti, per lo più distribuiti nella piana di Ninive, erano una sorta di cuscinetto tra sunniti arabi e curdi. Ma oggi le cose sono molto diverse. Ibrahim è profugo da Mosul e la sua casa è stata occupata da vicini sunniti. Hanno trovato il suo telefono in casa e lo hanno chiamato per dirgli che ora abitavano da lui su indicazione degli uomini di Isis. Lui ha risposto: «Se veramente siete credenti curerete la mia casa per quando tornerò», sorride e mi abbraccia: «La nostra fede ci dice che la casa dei cristiani è il mondo...».

I bambini ci circondano. Siamo italiani. Pizza, calcio, Papa è il modo con cui entrano in rapporto con noi, poi ci mostrano orgogliosi i pezzi di mondo che si sono costruiti. Nelle tende, sotto gli alberi, su un muretto da dove affiora una immagine sacra. Affiora la speranza di gente irriducibile che vive nella sofferenza da sempre e che trova le ragioni di ciò che accade terribili, quelle politiche, gli odi, i rancori ma mai inaccessibili al disegno della provvidenza.

Cominciano le riunioni per fare il punto sugli aiuti. Arrivano i militari che mi accompagneranno al fronte. Ad Ainkawa i giovani delle scuole che organizzano la cena di cinquantamila persone, la distribuzione di acqua e medicine continuano la loro battaglia.