Il lato umano di piazza Tahrir

In un incontro nel Varesotto Wael Farouq racconta della mostra allestita con i ragazzi del gruppo Swap. Ricordando che la soluzione non sta nello scontro tra stereotipi, ma «nella capacità di volere bene all'altro». Ed è qualcosa che sta già accadendo
Valentina Bolis

L’immagine di due madri che si stringono le mani dopo aver perso i loro figli: l’uno cristiano e l’altro musulmano. Oppure, giovani che scendono in piazza, non per rivendicare diritti o protestare, ma per invocare il dialogo e la fine dei conflitti. Un musulmano che indossa la “N” di Nazareno - il simbolo utilizzato nei Paesi Arabi per marchiare con l’onta coloro che professano la fede in Cristo - perché vive come un peso troppo grande l’idea che a un suo fratello sia negata la libertà religiosa.

Sono tante le testimonianze di libertà raccontate lunedì 10 novembre dal professor Wael Farouq, intellettuale egiziano, docente di lingua araba all’Università americana del Cairo e visiting professor alla Cattolica di Milano, ospite del Centro Culturale San Carlo Borromeo a Germignaga, per un incontro dal titolo: "Avere la libertà o essere liberi? Il lato umano della rivoluzione egiziana".

«La grande Storia è fatta di piccole storie», ha introdotto Monica Scholz, moderatrice della serata: «La storia è immensa e, per questo, dentro ciascuno di noi, nasce il desiderio di capire cosa succede agli altri e capire di più dell’attività dell’uomo. Un atteggiamento attivo che non vuole cadere nella tentazione dell’indifferenza o nel tentativo di delega agli altri, finanche ai sistemi».

Farouq era accompagnato da Mina e Monica, due giovani ragazze del gruppo Swap (Share with all people: condividi con tutte le persone), un’associazione nata a Milano l’anno scorso, composta da giovani in gran parte della seconda generazione di migranti, in prevalenza studenti universitari di origine nordafricana o mediorientale, cristiani e musulmani. Sono loro ad aver illustrato i pannelli della mostra “Quando i valori prendono vita”, allestita quest’anno al Meeting di Rimini: «Una grande storia per immagini», hanno detto, «nata dal desiderio di riscoprire la nostra cultura». Una narrazione visiva che, attraverso fotografie, graffiti sui muri al Cairo e testimonianze scritte, racconta la storia di un popolo. «Con questa mostra abbiamo voluto far conoscere la reazione, in Egitto, di ragazzi musulmani che con le loro azioni hanno deciso, non tanto di condannare il male, ma di mostrare con la loro vita il bene», ha spiegato Farouq: «Hanno cioè avuto la capacità di guardare la realtà e fare una scelta: questo è essere davvero liberi davanti ad un dramma come la negazione della libertà religiosa».

«La vera protagonista di questa rivoluzione è la gente comune; sconosciuti che non hanno rinunciato alla fede. Non solo alla propria, ma anche a quella degli altri fratelli che abitano la terra d’Egitto. La libertà, in fondo, non è altro che la capacità di volere il bene e guardare l’altro», ha aggiunto Farouq, che intravede «nel dialogo tra stereotipi» il reale pericolo che mina dalle fondamenta la possibilità del dialogo interreligioso e della convivenza tra culture differenti.

«Il simbolo è riduzione della persona, è il passaggio da valore a ideologia. Anche l’amore se non è frutto di un’esperienza si riduce». Non una teoria, ma una grande esperienza in atto. I ragazzi di Swap hanno portato una testimonianza concreta di come l’integrazione sia davvero un obiettivo possibile, anche in una terra ferita, come la terra d’Egitto. Se, dunque, è possibile ricostruire un rapporto e un dialogo là dove ci sono conflitti e contrapposizioni così grandi, è ancor più possibile nel contesto storico del nostro Paese, dove sembra ancora difficile la vera convivenza civile tra i popoli. Magari non limitandosi al dibattito se sia opportuna la costruzione di luoghi di preghiera, come le moschee, ma vivendo un incontro. Per comprendere che un’amicizia è davvero possibile.