L'Università Cattolica di Milano.

Se l'università è una finestra sul mondo

All'Università Cattolica, la cerimonia di apertura dell'anno accademico. Tra i relatori, il cardinale Angelo Scola e monsignor Silvano Maria Tomasi, che ha fatto la prolusione. Di cosa ha bisogno la nostra società? Da dove si può ripartire?
Francesca Capitelli

L’Aula Magna è piena di gente, gli studenti si accalcano nelle ultime file e in tanti seguono la cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università Cattolica in collegamento video da un’altra aula. I professori sono nelle prime file, mentre sul palco sfilano i presidi di facoltà e il magnifico rettore. Presenti, il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano (e presidente dell'Istituto Toniolo), che ha celebrato la messa nella basilica di Sant’Ambrogio, e monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università. Mentre a fare la prolusione, è stato invitato monsignor Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra.

«Le università devono tornare ad essere luoghi in cui l’insegnamento non sia solo una forma di apprendistato, ma soprattutto un luogo di educazione», queste le parole del professor Franco Anelli, rettore dell’Ateneo, che ha preceduto l'intervento di Tomasi. L’Università Cattolica, così come era stata immaginata quasi cento anni fa da padre Agostino Gemelli, deve essere «un focolaio di attività scientifica, dove studenti e professori possono dialogare sui “nuovi veri”». «Le università sono un luogo di missione», gli fa eco il cardinale Scola: sono «comunità di discepoli missionari» a cui è rivolto l’invito di papa Francesco ad uscire verso le periferie per portare il Vangelo ovunque ce ne sia bisogno.

L’unico antidoto efficace alla «frammentazione e alla soggettivazione del sapere», il rischio più grande in cui l’educazione incorre, secondo l’Arcivescovo di Milano, è la cultura dell’incontro, auspicata dal Papa e di cui i cristiani devono essere «protagonisti fecondi». Bisogna «saper guidare, aiutare e far crescere l’utopia di un giovane», perché è una ricchezza, e «un giovane senza utopia è un vecchio precoce». Mentre, invece, dovrebbe essere «un ponte verso il futuro».

Alle nuove generazioni si guardava anche nel 1945, alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando si ripensava un mondo che non dovesse soffrire più il flagello della guerra, spiega monsignor Tomasi, iniziando il suo intervento. E proprio da questa volontà sono nate le Nazioni Unite, il cui scopo è quello di «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, e nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne».

Ora, questa stessa istituzione si trova di fronte ad una «crisi storica». Il mondo di oggi è fortemente globalizzato, in continuo mutamento, e gli Stati, così come le istituzioni sovranazionali, sono sfidati «dall’impossibilità di affrontare crisi economiche, finanziarie, politiche e di sicurezza da soli». Un’impasse che ha trasformato il sentimento di trionfo che aleggiava negli anni 90, alla fine della Guerra Fredda e dopo la caduta del Muro di Berlino, in un'ansia costante per i continui capovolgimenti della situazione globale. L’unica via d’uscita, secondo Tomasi, si trova nella Dottrina Sociale della Chiesa, ovvero in «una cultura fondata sugli ideali di solidarietà e fraternità». Come affermato anche da papa Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate, «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli». Con il solo uso della ragione è possibile stabilire regole per la convivenza civica, ma non è possibile fondare la fraternità, perché essa ha «origine da una vocazione trascendente di Dio che ci ha insegnato per mezzo di suo Figlio cosa sia la carità fraterna».

La crisi storica che stiamo affrontando, continua Tomasi, ha bisogno di una nuova spinta ideale, da cui possano attingere anche le Nazioni Unite, «foro naturale per i processi di riforma» e attore imperfetto sulla scena globale, ma di cui non possiamo fare a meno, per «dare voce agli ultimi e agli esclusi». Il progetto della Chiesa, allora, in questo proliferare continuo di crisi umanitarie è quello di appoggiare «sistematicamente l’esistenza non di un super-Stato, ma di un’autorità sovranazionale con poteri reali, quale espressione dell’unica famiglia umana».

L’insegnamento della Chiesa ricorda che «il messaggio cristiano, sin dal suo iniziale influsso sulla società, ha sostituito all’unità costruita dalla forza, un’unità più profonda basata sul rispetto della persona, della sua dignità e del suo valore trascendente». Il cristianesimo si è posto storicamente come «strumento aggregante della famiglia umana», con il compito di esaltare e far maturare le peculiarità e unicità di ogni popolo.

Tomasi cita anche il discorso di Giovanni Paolo II, quando parlò alle Nazioni Unite nel 1995, constatando come una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo sia la ricerca della libertà. Ricerca che, aggiunge, si fonda sui diritti universali radicati nella natura della persona e nei quali «si rispettano le esigenze obbiettive e imprescindibili di una legge morale universale». Questo è il solo comune denominatore da cui può partire una discussione sul futuro del mondo.

Manca ancora, tuttavia, nel dibattito internazionale, una visione comune, un ideale che guidi la famiglia umana, ormai sempre più globalizzata, e che sia in linea con il momento di transizione storica che stiamo vivendo. Secondo monsignor Tomasi, per far fronte alle pressanti realtà economiche, politiche e sociali, contagiate da una visione estremizzata dell’individualismo fine a se stesso, bisogna portare al tavolo delle trattative «la ricchezza della Tradizione e delle Sacre Scritture».