José Maria di Paola.

Droga e periferie. La via di padre Pepe

Disoccupazione, povertà e narcotraffico. Nel quadro delle baraccopoli di Buenos Aires, la soluzione ai problemi non viene dagli specialisti, ma da chi dà un'educazione e una ragione per vivere. Testimonianza del "cura villero" Maria José di Paola
Alver Metalli

C’era attesa nel pubblico. La questione, del resto, era di quelle che sfiorano molti, colpiscono tanti in prima persona e allarmano un po’ tutti gli argentini. Una questione che tocca la vita, la mette in pericolo come recitava il titolo che gli organizzatori hanno dato alla serata di giovedì 11 dicembre a Campana, una popolosa località alle porte di Buenos Aires. Perché la droga, il suo consumo, il commercio che significa, è oramai qualcosa che si è incistato nelle pieghe della società argentina per restarci a tempo indeterminato. «L’allarme l’hanno lanciato i vescovi un mese fa, nella loro assemblea annuale», ha ricordato José Maria di Paola, o padre Pepe, come lo conoscono tutti, uno dei Curas Villeros di Buenos Aires e oratore di spicco dell’incontro. Le parole che avevano usato i presuli in quell’occasione fecero correre un brivido freddo lungo la schiena di una società dai riflessi lenti, che non si era ancora accorta che la crescita strisciante degli ultimi anni aveva fatto un salto di qualità. «Il Paese si sta trasformando in un campo di battaglia tra narcos, e questo è inaccettabile», avevano gridato i vescovi, come poi ha ripetuto Di Paola nei saloni messi a disposizione dal Club Ciudad de Campana. Qualche giorno fa, Jorge Lozano, un vescovo suo amico, responsabile della Pastorale sociale della Chiesa argentina, aveva avvertito a sua volta che «il narcotraffico e la tratta di persone sono attività criminali portate avanti da mafie che stanno occupando il territorio e infettano con ricatti o mazzette diverse strutture della società e dello Stato».

A Campana, davanti ad un auditorio attento, il fenomeno della droga in Argentina è stato delineato nei suoi aspetti d’insieme. Cecilia Burroni, madre con sette figli, alma mater dell’incontro, ha citato in apertura le conclusioni di un analista, Sergio Burzaco, che ha indagato a fondo il potere narcos nel paese sudamericano. «Le loro reti si sono installate qui per produrre droga in laboratori locali, non solo per esportarla ai mercati del Primo Mondo, ma per soddisfare il mercato del consumo locale. I livelli di consumo, tanto di marijuana come di cocaina, si sono duplicati in dieci anni, posizionando l’Argentina come il Paese della regione con il maggior consumo pro capite».

Lo scenario “macro” ha presto ceduto il passo al vero approccio proposto all’invitato, che da un anno e mezzo vive in una baraccopoli alla periferia di Buenos Aires, e che da un mese è stato nominato coordinatore nazionale della Commissione contro la droga dell’episcopato argentino. Quella di padre Pepe è una baraccopoli della cintura di Buenos Aires formatasi nelle vicinanze di una stazione negli anni Quaranta, quando la ferrovia si è spinta sin lì e attorno all’ultima fermata, al di fuori del perimetro urbano di Buenos Aires, si sono stabiliti anche i primi nuclei di residenti. Poi l’area si è gonfiata di immigrati ad ondate successive, in prevalenza argentini che venivano a cercare lavoro da altre province povere (Corrientes, Santiago del Estero, Chaco) o semplicemente si spostavano verso la capitale per conquistare una vita migliore. A loro si sono aggiunti negli ultimi anni molti paraguayani e una numerosa minoranza di boliviani e peruviani. Nel 2001, con il tracollo dell’economia argentina, c’è stata un’altra forte ondata migratoria dalle campagne dell’interno. Oggi l’area marginale di Leon Suarez conta oltre 30mila persone, in buona parte concentrate nella villa La Carcova, dove vive Di Paola. Marginalità, disoccupazione, precarietà sanitaria, scolarizzazione ai minimi termini, ma su tutti il problema più devastante: quello della droga. «È una piaga in forte espansione, che coinvolge una gran quantità di ragazzi, come spacciatori o consumatori; impressiona vedere o venire a sapere che ce ne sono anche di 12-11 anni», riferisce Di Paola: «E droga vuol dire violenza per spacciarla e procurarsela, degrado umano, dissoluzione dei rapporti, morte per tanti, o per mano di altre bande o per mano della polizia».

Cosa fare davanti ad una offensiva tanto distruttrice? Di Paola ha spazzato via dal campo il primo grande equivoco: non si tratta anzitutto di un problema di specialisti. «Tutta la società deve essere parte nella risposta, perché la dimensione culturale e religiosa è fondamentale. La droga è la porta che si apre davanti a tutti noi perché avvenga un vero cambiamento. Fino a quando i valori che sottendono alla vita sono quelli del consumo, del maggior agio possibile, del tornaconto individuale non ci potrà essere una vera risposta alla sofferenza che provoca il consumo di droga».

Di Paola mostra di avere ben chiaro che per tirare fuori una persona dal buco nero del consumo, dalla china autodistruttiva dello spaccio, ci vuole una ragione per vivere, educazione e lavoro. Il problema di fondo, spiega il sacerdote, è «il senso della vita». È questo il punto di vista da cui padre Pepe guarda la realtà che ha intorno. Proprio per questo dissemina la baraccopoli di centri e cappelle che in poco tempo diventano dei punti di coagulo per un tessuto umano nuovo.

«Se il problema fosse unicamente la droga, la soluzione sarebbe un trattamento che allontani la persona dalle sostanze pericolose il tempo necessario per disintossicarsi. Ma se il problema, invece, è quello di una casa che non si può dire tale, del lavoro che non si trova, della difficoltà a rimanere all’interno del sistema educativo, delle malattie contratte con facilità e curate con difficoltà, se il problema sono la stigmatizzazione e l’isolamento, allora è evidente che il trattamento da solo non basta».

Nelle quasi due ore di dialogo Di Paola non ha eluso un tema caldo, controverso, dibattuto nella società argentina: quello della depenalizzazione. «Dall’alto ci dicono che bisogna depenalizzare», ha affermato il sacerdote: «Ma noi ci chiediamo chi decide l’agenda di quel che c’è da fare e le priorità. Perché, se si solleva la questione della depenalizzazione nei quartieri marginali, nelle villas, la gente risponde che la cosa urgente è la creazione di dispositivi di prevenzione e assistenziali. Le preoccupazioni delle persone che vivono in questi luoghi non sono la depenalizzazione: “Cosa faccio con mio figlio che se ne sta andando?”; “Come faccio adesso che è diventato ribelle e non vuole andare a scuola?”; “Chi gli può parlare con vera autorità?”; “Mio figlio sta tutto il giorno in un incrocio con dei poco di buono e ho paura che da un momento all’altro me lo portino a casa in una cassa da morto”; “Come ci dobbiamo comportare con la banda qui vicino che ruba alla gente che va al lavoro?”; “Come faccio con mio marito che non trova lavoro, beve e diventa violento?”. L’agenda politica deve avere queste domande nel proprio orizzonte se vuole rispondere davvero alle necessità della gente».