La cucina del carcere di Padova.

Fuori i detenuti dalle cucine

In dieci anni, ha dimostrato di essere un'esperienza molto positiva. Sotto ogni punto di vista. Eppure la gestione delle mense carcerarie da parte di cooperative esterne sembra giunta al capolinea. Perché?
Paola Ronconi

La vicenda ha dell’incredibile, se non fosse che siamo in Italia e a certe cose siamo purtroppo, abituati. Ma per capirla bisogna fare un passo indietro.
È il 2003 quando il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia) avvia un progetto sperimentale in cui dieci cooperative sociali prendono in gestione le mense di altrettanti penitenziari d’Italia (da Bollate a Padova, da Rebibbia a Siracusa...), offrendo un lavoro vero e proprio ai carcerati. Il tutto con una logica di mercato da “vita fuori dalle sbarre”: periodi di formazione per i neo assunti, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, stipendi “veri”. In dieci anni i risultati sono molto positivi: la qualità delle mense è più che soddisfacente, i lavoratori impiegano in modo costruttivo e rieducativo il loro tempo, sperimentano un lavoro vero, acquisiscono competenze per il reinserimento sociale e c’è un abbattimento della recidiva, per non parlare del risparmio per lo Stato, e quindi per il cittadino. A detta di tutti (amministratori penitenziari, politici, reclusi) un’esperienza molto positiva, «una buona prassi da estendere il più possibile», afferma Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, la cooperativa che gestisce le cucine nel carcere di Padova. Dopo dieci anni, si comincia a pensare a come trasformare l’esperimento in sistema.

Il 31 dicembre 2014 l’affidamento del servizio scade. Direttori di carceri e di cooperative cominciano sei mesi prima a chiedere un rinnovo al Ministero. Intanto con il nuovo Governo, alcuni incarichi decadono. Dal Dap nessuna risposta, se non una breve proroga di quindici giorni. A colloquio col ministro della Giustizia Orlando, questi parla di problema tecnico-giuridico per la presunta incompatibilità della Cassa delle Ammende (ente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che finanzia programmi di reinserimento in favore di detenuti e internati) a coprire finanziariamente il progetto. Parla di un’ulteriore proroga di quindici giorni, ma le sue dichiarazioni non chiariscono quale sia la strada da percorrere. Poi silenzio. Un assordante silenzio.

Oggi è il 14 gennaio. L’ulteriore proroga è stata negata. Il Consiglio della Cassa delle Ammende ha decretato la chiusura di tutto entro domani. Punto. Tradotto: questi dieci anni andranno in fumo, «170 persone più una quarantina di operatori esterni perderanno il posto di lavoro, e termina ingloriosamente una buona prassi che ci invidia tutto il mondo. È anche, forse ma speriamo di no, l’inizio del delinearsi di un vero e proprio smantellamento del lavoro penitenziario», dichiara il Coordinamento delle Cooperative in un comunicato stampa. «L’unica cosa che pian piano sta venendo a galla è l’idea di trasformare il lavoro penitenziario in un sistema velato di nuovo lavoro forzato, quello che papa Francesco chiama “le nuove forme di schiavitù”, lo sfruttamento delle fasce deboli e indifese che, se per di più hanno sbagliato, è bene che paghino e basta... Una domanda sola sorge: a chi giova tutto ciò? Siamo convinti che il ministro Orlando sia stato attirato in una imboscata e che il presidente del Consiglio Renzi non sia a conoscenza di questa vergognosa situazione, almeno così vogliamo pensare che sia».

Intanto per oggi, Officina Giotto ha organizzato un “penultimo Pranzo”, un momento di saluto e ringraziamento «a quanti in questi 11 anni, in primis il personale dell’Amministrazione penitenziaria, i detenuti che hanno partecipato a questo progetto e non da ultimo tutte quelle autorità e personalità che ci sono state vicine, ci hanno seguito con affetto, sostenuto con forza, incoraggiato in ogni modo».

Ma i lavoratori del carcere di Padova, quelli di Officina Giotto, non ci stanno: la speranza non la perdono, «non vogliamo “farcela rubare”, non permetteremo di “rubarcela”», afferma ancora il comunicato. «Come diceva Giovannino Guareschi “non moriamo neanche se ci ammazzano”».