Wael Farouq.

La ragione assente o il vero Adamo

Gli attacchi terroristici. La paura e la rabbia. Slogan e collera non ci cambiano. A cosa dobbiamo tornare? Il percorso di un musulmano che vuole «consultare il cuore» (da "Tracce" di febbraio)
Wael Farouq

I volti degli amici sono tornati ad affacciarsi dai profili dei social network, dopo essersi nascosti per giorni dietro ad un quadrato nero con la scritta “Je suis Charlie”, oppure “Je suis Ahmed”. Charlie, che tanto ha tenuto occupato il mondo, ora non interessa più. La sua presenza nella nostra memoria si affievolirà via via, fino a depositarsi sul fondo dell’oblio accanto ad altri slogan. “Bring back our girls”, “Io sono nazareno”... Tutti slogan che riempiono la nostra vita come una falsa gravidanza, perché finiscono nel nulla.

Con “nulla”, qui, non intendo l’incapacità di cambiare il corso degli eventi, bensì - ed è ciò che addolora - l’incapacità di cambiare qualcosa dentro di noi, come se fossimo un corpo inerte insensibile alle pugnalate. Ci caliamo con entusiasmo nel contesto degli eventi, volgiamo il nostro sguardo incollerito in tutte le direzioni, tuttavia non riusciamo a calare questi eventi nel contesto della nostra esperienza umana. In altre parole, non siamo dei soggetti agenti, perché restiamo prigionieri della reattività ben descritta da don Luigi Giussani ne Il senso religioso: «Come è superficiale lo spessore di un’azione che nascesse come pura reattività dell’istante! (...) Dialogo e comunicazione umana hanno radici nella esperienza: infatti l’aridità, la flaccidità della convivenza, della convivenza delle comunità, da che cosa dipende se non dal fatto che troppo pochi possono dire di essere impegnati nella esperienza, nella vita come esperienza? È il disimpegno della vita come esperienza che fa chiacchierare e non parlare. (...) La reattività taglia i ponti con la tradizione, la storia, inaridisce l’impeto verso il futuro come fecondità (può rimanere come rabbia, una rabbia a vuoto: “Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto”)» (Dante, Inferno, canto VIII, v. 19). Questa reattività riduce la capacità di dialogo e di comunicazione, perché dialogo e comunicazione hanno radici nella esperienza, custodita e quindi maturata nella memoria e giudicata dalla intelligenza, giudicata cioè secondo i caratteri, le esigenze costitutive della nostra umanità».

La collera è la voce terrorizzata del vuoto, la voce degli uomini vuoti, come dice Thomas Eliot: «Figura senza forma, ombra senza colore, / Forza paralizzata, gesto privo di moto».

Dietro agli slogan incolleriti non c’è un Io, bensì un «gesto privo di moto», che si muove in un gregge e ha perso la capacità di formulare giudizi. La collera è una reazione, il dolore è una risposta. Ci arrabbiamo per qualcosa di astratto, ma per le persone ci addoloriamo. Se crediamo in un’idea, ci arrabbiamo; se amiamo, ci addoloriamo. Papa Francesco ci invita ad addolorarci, a piangere: «Con cuore di figlio, di fratello, chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da “A me che importa?”, al pianto. Per tutti i caduti della “inutile strage”, per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo. Il pianto. Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto» (celebrazione al Sacrario di Redipuglia, 13 settembre 2014).

La collera, come l’amore, è cieca, perché non vede il bene. Il dolore, invece, è discernimento che costruisce nel presente la memoria del futuro.

Violenza religiosa?
In mezzo al clamore di voci incollerite, ad Avvenire il cardinale Jean-Louis Tauran ha detto: «La religione non è il problema, bensì parte della soluzione». Suona strano e scioccante. Ormai è dato quasi per scontato, infatti, che la religione in generale è la principale fonte di violenza. Se l’Occidente non avesse escluso la religione dalla vita pubblica, vivremmo ancora in una spirale di violenza. «Guardate i musulmani!», si pensa.

La verità che di rado è detta dai mezzi d’informazione è che la violenza motivata religiosamente rappresenta solo una minima percentuale della violenza che affligge la società contemporanea. Il terrorismo religioso rappresenta meno del 10% di tutti gli attacchi terroristici (Rapporto Europol, 2014); una ricerca dell’Università del North Carolina ha mostrato come, fra l’11 settembre 2011 e il 2013, le vittime americane del terrorismo islamico sono state 37, quelle di omicidio 190mila, ci cui 14mila solo nel 2013 (Charles Kurzman, Muslim-American Terrorism in 2013, University of North Carolina).

Alcuni ricercatori “laici” ritengono che l’emarginazione della religione dalla vita pubblica abbia persino causato un innalzamento del tasso di violenza. Karen Armstrong, per esempio, in un’intervista del 2014 per Salon, critica l’opinione dominante che la violenza sia un residuo della religione. La scrittrice afferma che biasimare la religione per la violenza consente agli occidentali di ignorare il ruolo fondamentale che la violenza ha giocato nel dar forma alle loro società, così come il ruolo che queste società hanno giocato nel seminare violenza al loro esterno.

Secondo la Armstrong, se si pensa che il sacro sia qualcosa per il quale si è disposti a sacrificare la vita, allora in un certo senso la Nazione ha rimpiazzato Dio, perché oggi non è più accettabile morire per la religione, ma è ammirevole morire per la propria Nazione. Aggiunge che siamo tutti coinvolti in questa violenza e che non c’è Stato, per quanto questo possa proclamare di amare la pace, che possa permettersi di sciogliere il proprio esercito. Pertanto - conclude - quando la gente individua nella religione la causa delle grandi guerre della storia, compie una semplificazione eccessiva. La violenza è al cuore delle nostre vite, in una forma o nell’altra.

Il Corano e Charlie.
Ci sono molti versetti coranici che insegnano ai musulmani come reagire alla derisione di Dio, dello stesso Corano o dei profeti. Tutti quanti chiedono di rispondere al male con il bene. Non c’è un solo versetto che preveda una punizione per blasfemia.

«Egli vi ha rivelato nel libro che quando sentirete rinnegare i segni di Dio o li sentirete deridere, non dovrete restare con coloro che lo fanno, finché non cambieranno discorso» (Sura 4:140). Oppure: «Il bene e il male non sono uguali; tu respingi il male con un bene maggiore, e il nemico sarà per te un amico sincero» (Sura 41:34). E ancora: «I servi del Clemente sono quelli che camminano sulla terra con umiltà e quando gli ignoranti si rivolgono a loro rispondono “Pace”» (Sura 25:63).

Anzi, il Corano stabilisce che la difesa dell’islam, del suo Libro e del suo Profeta non è in alcun modo affidata ai musulmani, ma spetta solo a Dio: «Noi ti bastiamo contro quelli che si burlano di te» (Sura 15:95); «Noi riveliamo il monito e noi ne siamo i guardiani» (Sura 15:9). Per questo, secondo quanto riporta la tradizione islamica, il califfo Umar b. al-Khattab (634 - 644 d.C.) ha detto: «Lasciate perire l’iniquo tacendo su di esso».

Con ciò non voglio proporre un “vero islam”. Questo è ciò in cui credo, che non nega, come fa chi si dice musulmano e pensa che l’islam non sia altro che una licenza di uccidere, la fede altrui. Le cose sono ben più complesse di qualche versetto che invita alla pace e qualche altro versetto che invita alla guerra; e ben più tragiche della futile polemica ideologica.

Divorzio nel sonno.
Il giorno prima dell’attacco a Charlie Hebdo, il giornale egiziano Aqidati (“Il mio credo”) ha pubblicato la risposta del dottor Adel Abul Abbas, membro del Consiglio delle fatwa di al-Azhar, al seguente quesito: che cosa prescrive la sharia per un uomo che pronuncia la formula del divorzio durante il sonno? Sua moglie deve considerarsi divorziata, tenuto conto che non può esserci divorzio per un addormentato, mancando la sua piena volontà?

Questa è solo una dei milioni di fatwa che ogni anno sono promulgate nel mondo islamico. L’enorme numero e la natura di queste fatwa riflettono la vastità e la natura della loro domanda, osservandole si direbbe che i musulmani abbiano perso la capacità di giudicare, delegando l’intera responsabilità di pensare, per tutto ciò che riguarda la conformità della propria vita quotidiana con il proprio credo, agli uomini di religione. Nel contempo, questi uomini di religione, che portano il peso di pensare per l’intera società, si presentano come i mediatori fra i pii antenati e i figli della società moderna, null’altro che i trasmettitori dei grandi imam del passato (la qual cosa è anche la fonte della loro legittimità e autorità), il cui compito è soltanto quello di preservare la purezza dell’islam come lo vissero gli antenati nel passato e come Dio vuole che i figli lo vivano nel presente.

Nel passato, quando non vi era abbondanza di mezzi di comunicazione, le fatwa si caratterizzavano per la loro generalità. Toccava alle persone esercitare il pensiero e l’interpretazione per stabilire il nesso fra una fatwa conosciuta e la propria situazione personale. Oggi, i mezzi di comunicazione moderni offrono a qualsiasi persona la possibilità di ottenere una fatwa applicabile solo al proprio caso personale. Di conseguenza, questa persona non è più tenuta a pensare, ragionare per analogia o argomentare. La modernità ha messo a disposizione una tecnologia che ha definitivamente districato la religiosità dalla razionalità. Ciò contrasta con quella che l’islam ritiene la sua caratteristica distintiva più importante: l’assenza di clero accompagnata dal principio che invita sempre a «consultare il proprio cuore, anche quando vien dato un responso giuridico (fatwa)». Poiché l’autorità ultima che giudica delle azioni di una persona è il suo cuore.

La cultura islamica contemporanea, sia dal punto di vista intellettuale che pratico, non è altro che una prigione per i valori della civiltà islamica. Le tradizioni religiose sono diventate più importanti dell’esperienza religiosa, la forma è diventata più importante della persona, più della sua mente, del suo cuore e della sua coscienza. Per questo è diventato possibile uccidere e morire in nome della “forma” e accettare, in nome di quest’ultima, di sacrificare la persona.

L’emissione della fatwa sul divorzio di un addormentato, poco prima dell’attacco a Charlie Hebdo, non è una coincidenza, è l’emblema paradossale di una ragione assente che ripudia la vita.

Valori svuotati.
Negli anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011).

Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà. Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine “post”, anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.

Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano - e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.

Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il “diverso”, operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la “diversità”, poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.

Libertà.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?

Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una “società parallela”, dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.

L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.

In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal “sacro nulla” al “nulla è sacro”. Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.

Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.

(traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)