Le "Cene galeotte" nel carcere di Volterra.

Quando il carcere diventa «un villaggio»

Da Padova a Firenze, da Roma a Volterra. Il 23 aprile un incontro ha testimoniato la ricchezza di molti programmi di reinserimento nei penitenziari italiani. Che, con una riforma alle porte, chiede di essere guardata
Silvia Guidi

«Meet at work». A volte un refuso parla più di un saggio o di un dossier per specialisti. Leggo la frase sottolineata in rosso in un foglio di appunti accanto al mio e penso che è proprio così: è il lavoro che rende possibile incontrare. Anche se stessi, non solo gli altri. «Meet at work»: dietro le sbarre o fuori, in un mega condominio grigio di periferia come in un centro residenziale blindato, videocontrollato e foderato di impeccabili prati all’inglese.

La cooperativa romana che lavora dal 2003 con i detenuti di Rebibbia in realtà si chiama "Men at Work", ma il concetto passato è quello giusto, ribadito in mille modi diversi dal tavolo dei relatori come dalle testimonianze video o live dei diretti interessati, detenuti o ex detenuti accompagnati dal lavoro manuale e da uno sguardo amico alla scoperta di una nuova dimensione di sé, di un nuovo modo di affrontare la vita, di giudicare il presente e il futuro; di guardare perfino il passato, anche quello più doloroso. Perfino il male fatto e subito.

Eravamo in tanti al convegno “Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio”, organizzato a Roma il 23 aprile scorso da Alleanza delle Cooperative Sociali, Cdo Opere Sociali e Forma, e moderato da Alessandra Buzzetti e Giuseppe Guerini: tanti politici (tra gli altri, Luigi Bobba, sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Gabriele Toccafondi, sottosegretario al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Edoardo Patriarca, parlamentare e presidente Centro nazionale per il volontariato - Lucca, e al termine ha portato il suo saluto il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando), tanti volontari, tanti operatori del settore, ma non solo. Anche tanti clienti affezionati della Cooperativa Giotto di Padova che, insieme ai dolci e alla birra sfornati dai detenuti del Due Palazzi, hanno scoperto un nuovo modo di guardare se stessi e le persone più care, come lo sconosciuto incontrato in metropolitana, e qualche navigatore di Twitter che ha seguito l’hashtag #villaggiocarcere e ha risposto positivamente alla proposta: «La carità fa bene soprattutto a chi la fa. Vieni a vedere».

Il titolo del convegno si ispira a un proverbio africano citato da papa Francesco in occasione dell’incontro con il mondo della scuola, il 10 maggio 2014: «Per educare un figlio ci vuole un villaggio». La città che aiuta il recupero umano e sociale dei detenuti c’è già, ma rischia di essere invisibile; in pochi la conoscono davvero. Un esempio per far capire le dimensioni del fenomeno. Molti hanno visto o almeno hanno sentito parlare di Cesare deve morire dei fratelli Taviani, il film interpretato dai detenuti di Rebibbia che ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino tre anni fa, ma non sanno come è nato. Il film è la punta visibile di un grande iceberg: il paziente lavoro educativo di migliaia di volontari che donano gratuitamente il loro tempo per sostenere i carcerati e le loro famiglie, favorendo la possibilità di una ripartenza (anche economica) attraverso il lavoro o la condivisione di quella conoscenza apparentemente “inutile” che ricorda a ciascuno il dantesco «fatti non foste a viver come bruti».

La legge scritta nei codici non basta, servono persone disposte a mettersi in gioco in un cammino comune. Accanto ai numeri (significativi e macroscopici: abbattere la recidiva comporta un risparmio da 210 milioni di euro per lo Stato) hanno parlato le testimonianze degli abitanti del “villaggio carcere” che lavorano in Sicilia, a Padova, presso le cooperative sociali Men at Work (attive a Rebibbia, come i volontari di Vic), Il germoglio di Sant’Angelo dei Lombardi ad Avellino, la cooperativa Homo Faber di Como e l’associazione Incontro e Presenza di Milano, il sorriso luminoso e ironico di Claudio Burgio, fondatore dell’Associazione Kayròs, “don” amatissimo dai ragazzi del Beccaria di Milano, e una piccola rappresentanza delle centinaia di persone che si occupano di formazione dietro le sbarre.

La scuola in carcere non deve essere considerata di "serie b", ha detto Gabriele Toccafondi, «la sfida per noi è dare ridarle dignità, convincere presidi e amministratori che la proposta formativa deve essere seria pur tenendo conto delle condizioni non semplici in cui si opera», spiega il Sottosegretario: «Ognuno dei 32mila diplomi rilasciati in sei anni è un’occasione di ripartenza. Sono stato nel carcere di Rebibbia per la laurea di tre detenuti. Uno era un ergastolano che aveva deciso di studiare e di laurearsi, nonostante il “fine pena mai”. Questo significa rieducare mettendo al centro la persona».

Dai panettoni di Padova alle bottiglie di Falanghina di Sant’Angelo dei Lombardi, dalle 2.500 rose coltivate dalle detenute nel carcere di Sollicciano a Firenze alle vecchie biciclette rimesse in funzione dal progetto “A piede libero”, dalle “cene galeotte” preparate una volta al mese dai carcerati della Casa di reclusione di Volterra (già celebri per gli spettacoli teatrali portati in tournée, grazie alla “Compagnia della Fortezza”) ai biscotti “made in Rebibbia”: il paesaggio di #villaggiocarcere è ricco, vario, pieno di voci diverse, pieno di potenzialità ancora inespresse. Davanti a questa “febbre di vita” in corso, la domanda al ministro Orlando è diretta: «La riforma del sistema penitenziario favorirà concretamente il recupero umano e sociale dei carcerati?».

Le cooperative di volontariato sono pronte a dare il loro contributo agli “Stati generali sul carcere”, seguendo sempre la logica che gli economisti chiamano del “win-win”, del vince-vince. I dati sulla recidiva parlano chiaro: tra i detenuti che non svolgono programmi di reinserimento sfiora il 90 per cento, mentre tra i detenuti che seguono questo percorso si riduce alla soglia del 10 per cento. Ma per essere sussidiaria nel suo esito, ha ribadito Monica Poletto, presidente Cdo Opere Sociali, la riforma del sistema penitenziario dovrà esserlo anche nella sua genesi: «Bisogna sempre partire da ciò che già c’è ed opera e collaborare per capire come possa essere sviluppato».