Un chiesa bombardata ad Aleppo.

«Le nostre porte saranno sempre aperte»

Padre Ibrahim Alsabagh, francescano siriano di Damasco, da novembre vive tra i cristiani rimasti ad Aleppo. Nella città devastata dalla guerra, tra bambini e anziani che si lasciano morire, c'è chi ancora chiede una speranza
Andrea Avveduto

«Non sappiamo, non capiamo. Di giorno sentiamo rumori in continuazione e vediamo i missili sorvolare le nostre case, ma non abbiamo una reale percezione di cosa stia accadendo». Padre Ibrahim Alsabagh si commuove quando racconta di Aleppo, la città devastata dal conflitto siriano dove è tornato per fare il parroco, abbandonando Roma e una promettente carriera da teologo. Originario di Damasco, questo frate di 43 anni è da sei mesi fra la sua gente per condividere la propria speranza.

Padre Ibrahim, in quali condizioni vive oggi la gente di Aleppo?
Da mesi, siamo senza internet. E per tre settimane siamo rimasti senza telefono. Gli abitanti di Aleppo vengono privati di tutti i diritti più elementari, come mangiare e bere o avere la libertà di praticare la propria religione. Avere una vita normale è impensabile oggi in Siria, soprattutto ad Aleppo, la città più devastata, quella che ha più bisogno. Bisogno di tutto. Manca l’elettricità, a volte non abbiamo acqua per diversi giorni e il lavoro scarseggia sempre di più: la disoccupazione ha raggiunto quasi l’80% e la gente rischia di morire di fame. Vedo ogni giorno persone malnutrite, bambini e anziani che vanno verso la morte, inesorabilmente. Alcuni hanno persino deciso di smettere di curarsi, e questo è l’aspetto che più mi preoccupa: se manca la volontà di prendersi cura di sé, significa che manca la volontà di vivere. Un mio parrocchiano è stato operato per un cancro all’intestino. Avrebbe dovuto fare un controllo dopo due mesi: sono passati due anni e non si è fatto ancora visitare. È una tragedia. Con alcuni parrocchiani faccio fatica a dire: fate degli accertamenti medici! Non mi ascoltano. Se dovessi riassumere tutto in una frase, direi che Gesù è crocifisso ancora oggi, nei siriani di Aleppo. Per me è una concretezza che entra nella carne.

Qual è il bisogno più urgente della popolazione?
È cambiato nel tempo. Una volta ci chiedevano il cibo, un aiuto per pagare l’affitto o il mutuo della casa. In alcuni casi, non pagano la rata da due anni e rischiano di rimanere per strada. Dopo l’ultimo terribile attacco, la domanda è cambiata: non vogliono più riso o fagioli (non vediamo carne da anni), chiedono come si fa a vivere. Nell’ultimo attacco missilistico, dodici persone hanno perso la vita e 700 sono fuggite. Arriveremo a domani? Quanto ci rimane da vivere? Perché dovremmo rimanere qui a farci bombardare? Sono queste le domande che gli abitanti di Aleppo sentono più urgenti in questo momento.

I più giovani come stanno vivendo questa guerra assurda?
I giovani si stanno trascurando, non studiano, non vivono. Quando la famiglia vive male, neanche loro pensano più a se stessi. Alcune scuole sono ferme, gli studenti più grandi hanno smesso di dare esami. Un giorno però è arrivato un ragazzo, che voleva essere accolto. Aveva una domanda: voleva studiare, desiderava un piccolo spazio per prepararsi agli esami. Allora assieme abbiamo creato un luogo dove tutti gli studenti possono trovarsi a studiare. In molti casi gli diamo anche dei soldi. Farei di tutto perché non si interrompa la loro formazione. Loro sono il futuro e, quando la guerra finirà, la Siria avrà bisogno di loro. Per questo, dopo la fine degli studi, cerco di trovar loro una piccola occupazione in parrocchia. Provo a pagargli una piccola parte di uno stipendio normale. Se riesco a coprire metà del salario, è già un grande risultato.

Che cosa significa la vostra presenza per la popolazione di Aleppo?
Nelle ultime settimane sono state danneggiate 37 case, che hanno bisogno di un intervento tempestivo. Cerchiamo di ripararle immediatamente. La gente deve capire che noi siamo al loro fianco qualunque cosa succeda, perché non si faccia prendere dal terrore. Ogni giorno vado a visitare le famiglie, cerco di assistere chiunque nei suoi bisogni primari. Abbiamo aperto le scuole, perché possano diventare veri e propri centri di accoglienza. Con i religiosi di Aleppo in questi giorni pensavo: «Se c’è ancora un bombardamento, dobbiamo essere preparati ad accogliere tutti». Ho chiesto ai superiori di poter ospitare anche nelle chiese, se dovesse essere necessario. Le nostre porte devono essere sempre aperte in ogni caso di bisogno. Vogliamo aprire a tutti coloro che bussano. E sono convinto che il Signore ci aiuterà a superare le difficoltà.

Ci sono segni di speranza dentro la situazione che ha descritto?
Non ho mai parlato tanto di fede e di speranza come in questi ultimi cinque mesi. Ce ne sono, eccome. Basta guardare a come siamo diventati amici di tanti musulmani che prima - quasi - non guardavamo in faccia. E poi tutta la solidarietà internazionale, che ci permette di sopravvivere. Anche se a volte non è sufficiente, ogni giorno sperimento il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.