I battesimi nella cattedrale di Garissa, a Pasqua.

Testimoniare la fede anche a costo della vita

Dopo il massacro del 2 aprile, a Garissa, in Kenya, la paura cresce. Ma per i cristiani, una minoranza rispetto ai musulmani, appartenere alla Chiesa è decisivo. Lo racconta monsignor Joseph Alessandro, vescovo nella Diocesi
Davide Perillo

La pallottola ha attraversato la portiera, si è infilata nell’anca ed è arrivata all’intestino. «Un’esperienza brutta, ma è stata una grazia. Da quel momento ho più fiducia in Dio. Salgo in macchina e mi affido, mi metto nelle Sue mani…». Monsignor Joseph Alessandro, 65 anni, frate cappuccino, maltese, vescovo coadiutore di Garissa, Kenya, è passato per la stessa croce toccata ai suoi ragazzi. Ai 147 studenti massacrati all’alba del 2 aprile nel cortile dell’Università.

A sparare a lui non erano stati i fanatici di al Shabaab, «i giovani», in arabo, i terroristi che arrivano dalla Somalia e che nel campus hanno separato i cristiani dagli altri per ucciderli. Nel ’94 non c’erano ancora. Altre bande, sempre somale. Ma quando è arrivata la notizia dell’assalto, gli sms, le telefonate dei ragazzi che chiedevano aiuto, monsignor Alessandro ha rivissuto di colpo quel momento. «Abbiamo sentito spari per tutto il giorno, ma nessuno fuori sapeva davvero che cosa stesse succedendo». Racconta: «Noi abbiamo cercato di andare subito nell’ospedale dove avevano portato i feriti, ma era isolato. Ci abbiamo riprovato il giorno dopo. Ci hanno detto che avevano trasferito tutti in un campo militare». I susperstiti, e le vittime. Come Ayub, che si era alzato presto per andare a pregare e nell’ultimo messaggio a casa scriveva «non ci resta che Dio». O Milton, che amava il gospel e voleva diventare insegnante di lingue. Oppure Laban, che è morto affrontando i terroristi a mani nude per difendere gli amici. E tanti altri.

Erano fuorisede, il Vescovo li conosceva poco. «Solo alcuni, di vista. A volte venivano a messa in cattedrale. Un mese prima ero stato io da loro: l’Università non è lontana da qui». A quella messa erano una settantina. «Dopo ne ho incontrato qualcuno. Parlavano delle aspettative, del futuro. Mi avevano presentato la loro organizzazione studentesca: il presidente, il tesoriere, i responsabili… Era tutto centrato sulla vita cristiana. Mi avevano dato l’idea di gente molto attiva, che si prendeva delle responsabilità lì dove era».

La strage è arrivata il Giovedì Santo. Il giorno dopo, per la Via Crucis, monsignor Alessandro racconta che i fedeli erano in pochi. «Anche alla Veglia di Pasqua: abbiamo dovuto iniziarla alle tre del pomeriggio, per motivi di sicurezza, ma la Chiesa era quasi vuota». A Pasqua, però, no. C’erano i battesimi. «Ventotto bambini. La Cattedrale era di nuovo piena. È stato un momento di incoraggiamento per tutti. Anche per me. Io abito lì, nello stesso compound: per me non era difficile arrivare. Ma molte di quelle famiglie sono venute a piedi, da lontano, passando attraverso gli sbarramenti, la polizia... La paura. Hanno mostrato che la fede, per loro, ha un valore grande». Quale? «Dà coraggio e li mantiene insieme come comunità. I cristiani a Garissa sono in minoranza: la maggior parte sono musulmani e somali. E i cattolici sono pochi: ottomila in tutta la Diocesi. Appartenere alla Chiesa è una cosa decisiva per loro».

Adesso la paura morde, più di prima. «Molti cristiani sono in città per lavoro, non sono di lì. Sono insegnanti, medici, impiegati statali... Qualcuno sta pensando di andarsene, di tornare in zone più sicure». Ma il rischio, da queste parti, esiste da anni. «A Natale, 800 chilometri più a nord, ci sono stati altri due massacri. Uno su un bus: hanno fatto scendere la gente e separato musulmani e cristiani, come all’Università. "Chi sa un verso del Corano può andare, gli altri no”. Ne hanno uccisi 27». Dieci giorni dopo, l’attacco a una cava di pietre. «Stessa scena. E 38 morti. Ma nell’ultimo anno ci sono stati tanti fatti, grandi e piccoli: spari, a volte addirittura granate sulle strade. Ogni tanto si sente "ne hanno ucciso uno", o "hanno ferito altri tre"». Cristiani? «I bersagli sono sempre i non musulmani».

E i musulmani di Garissa che fanno? Che dicono? «Quasi tutti condannano questi fatti. Al mattino del Sabato Santo sono venuti due imam. Uno era il capo del Consiglio supremo islamico di lì. Ci hanno portato solidarietà e chiedevano scusa per quello che è successo».
Ma lei, eccellenza, ha paura? «No. Cerco di essere prudente: non esco la sera, sto attento se c’è qualcuno che mi segue... Quando parcheggio, provo sempre a farlo dove c’è qualche poliziotto o i vigilantes di banche e uffici. Ma paura, no. Mi affido al Signore. Lo faccio molto di più, da quando mi è capitato l’assalto». È successo anni fa, appunto. Ha voluto dire mesi di convalescenza e il rientro forzato in Europa, prima di poter tornare in Kenya, dove è Vescovo dal 2012. «Ma neanche allora provavo risentimento. Ora, prima di viaggiare, chiedo al Signore di proteggermi più nell'anima che nel corpo». In che senso? «Se uno si trova in una situazione simile, se ti chiedono se sei cristiano o no, bisogna avere il coraggio di testimoniare la fede anche a costo di perdere la vita. Ecco, io chiedo quella forza». E nel suo popolo vede lo stesso impeto? «Sì. Lo vedo da come vivono. Anche nelle cose piccole. Negli ambienti musulmani, per esempio, non è facile portare la croce o la corona del rosario al collo. Loro lo fanno. È segno che la fede è più importante della vita».

Parla anche di altri segni, monsignor Alessandro. «Fatti che ci danno speranza. Facciamo iniziative che cercano di coinvolgere i giovani e le donne, di qualsiasi religione. Abbiamo cinque scuole primarie, nella Diocesi, e sono aperte anche ai musulmani. I bambini crescono insieme, studiano insieme, giocano insieme. Siamo convinti che se riescono ad essere così vicini dall’inizio, il futuro sarà meno ostile». E succede? «A volte sì. Tempo fa, per esempio, nel territorio di una parrocchia c’era un conflitto tra due clan: uno musulmano, l’altro misto». Non erano questioni di religione, ma alla fine ci si divide anche per quello. «Le donne lo hanno saputo. Si sono riunite insieme, cristiane e musulmane. Sono andate dal Governatore e gli hanno detto: "Noi stiamo qui nel suo ufficio finché non chiama i nostri mariti per mettere pace". Questa mossa ha evitato uno scontro. Ma l’amicizia tra loro era nata in un gruppo parrocchiale».

Pochi giorni dopo il massacro, monsignor Alessandro era a Roma, in visita ad limina con gli altri Vescovi kenyoti. Che cosa vi ha detto il Papa? «Ha toccato due punti decisivi. Anzitutto, il perdono: dobbiamo perdonare, ovvero essere umili e dare a Dio il tempo di lavorare. Poi, la nostra responsabilità di pastori: non possiamo sederci e guardare, senza provare a fare nulla. Altrimenti saremo responsabili del nostro silenzio. Ha aggiunto anche che prega per noi e ci abbraccia». Ma i suoi fedeli che cosa chiedono a noi, occidentali? «Di ricordarli nelle preghiere. E di continuare ad aiutarli con la nostra presenza e il messaggio del Vangelo. Gesù ci ha detto che "verrà un tempo in cui sarete perseguitati e uccisi e quelli che vi uccidono crederanno di dare onore a Dio". Lo ha detto Lui. Ma ha detto anche che sarà con noi per sempre. Questo ci riempie di coraggio. E poi, lasciamo al Signore le sue strade. A volte sono sconosciute, ma siamo sicuri che portano al bene».