Profughi cristiani nel quartiere di Ainkawa, Erbil.

«Non c'è disperazione qui, solo un'umanità nuova»

Decine di famiglie dormono nelle tende da mesi, o nelle scuole trasformate in dormitori. Ma non c'è ombra di odio o di lamento tra i profughi di Erbil. La testimonianza di Alfonso Fossà, medico in pensione, che collabora con Avsi nel Kurdistan iracheno
Alessandra Stoppa

Erbil è una città moderna. In continua espansione. Sono decine i quartieri nuovi, con condomini e ville in gran parte ancora disabitati, simboli di tutta la tensione al futuro di questa nazione senza Stato. Di certo, la gente di Erbil è stata pronta di fronte al presente, al dramma imprevisto della Storia. Quando l’Isis ha invaso la Piana di Ninive ed è iniziato l’esodo dei cristiani dal Nord dell’Iraq, un quartiere cristiano come Ankawa, 40mila abitanti, ha accolto 60mila sfollati. Non c’era più un metroquadro libero, gente dappertutto, nei giardini, nei parchi, nelle chiese, nelle scuole, sui marciapiedi. «Un grandissimo sforzo di accoglienza». È questa la prima cosa che ha visto ad Erbil Alfonso Fossà, medico in pensione, che dopo dieci anni di missione in Africa sta collaborando con Avsi ad un progetto tra i campi profughi del Kurdistan iracheno.

È venuto la prima volta a febbraio scorso con un team di Avsi per fare, insieme ai responsabili del Patriarcato caldeo e di Caritas Iraq, una ricognizione dei bisogni su cui impegnare i fondi della campagna Tende lanciata l’anno scorso. «Ho visto gente che era nelle tende da agosto», racconta: «Ma non sembravano soffrire. In loro non c’era ombra di rabbia, nemmeno di lamento. Un atteggiamento che vedevo di continuo: un clima. Mi chiedevo che cosa permettesse questo».

La risposta l’ha incontrata alla fine di quella missione, di fronte all’arcivescovo di Mosul, monsignor Amel Shamon Nona. «Si è messo a raccontarci nei dettagli tutto quello che aveva vissuto lui». La telefonata di un caro amico prete, a cui non ha potuto rispondere e quando lo ha richiamato, suonava a vuoto: era stato ammazzato. Le ore di quella notte, tra il 5 e il 6 giugno 2014, passata ad avvisare i cristiani di Mosul perché all’alba l’Isis avrebbe invaso. E poi la fiumana di migliaia di persone che si sono messe in cammino per settanta, ottanta chilometri nel deserto, in cui i più anziani non ce l’hanno fatta e alcuni bambini si sono persi e mai ritrovati.

«La persecuzione è diventata sanguinaria dopo il 2003, con la caduta di Saddam», ha aggiunto Nona: «Poi si è acuita con l’Isis. Ma, anche se il mondo se ne accorge ora, noi siamo perseguitati da mille e quattrocento anni». Quando gli hanno chiesto cosa poter fare per loro, ha risposto: «Vivete da buoni cristiani. A noi basta questo». Fossà lo guardava («nemmeno in lui c’era un filo di rabbia»), ripensava alla Lettera ai cristiani d’Occidente, che il teologo cecoslovacco Jozef Zverina scrisse sotto il regime, nel 1970, per ricordare ai fratelli Oltrecortina la loro vera identità, dimenticata. «Nona mi ha chiarito l’atteggiamento che vedevo tra la gente: tutte quelle persone ricomposte in unità, senza ombra di odio e lamento, malgrado la gravità della situazione. L’Arcivescovo è la guida di un popolo che è come lui: uomini, donne, ragazzi e bambini che stanno facendo la sua stessa esperienza».

I volti e le voci che lo hanno colpito sono tantissimi. Un’anziana suora che si aggira in mezzo a un campo di sfollati in cerca di bambini con cui iniziare la scuola materna quel giorno stesso. Le domenicane siro-cattoliche, che sono fuggite esattamente come la loro gente e vivono nelle stesse condizioni. Suor Diana, fine intellettuale che insegna Spiritualità nel seminario caldeo di Erbil, che ha messo in piedi due poliambulatori in caravan attrezzati, impiegando medici e infermieri tra i profughi, dandosi da fare in ogni modo per acquistare medicine: «Hanno 300, 400 pazienti al giorno. È impressionante vedere come queste religiose vivano la maternità in mezzo alla gente».

Intanto, da marzo, la Caritas ha affittato alcuni appartamenti ad Ozal, uno dei quartieri nuovi della città, circa 125 case, con due o tre famiglie ciascuna, così che pian piano possano lasciare le tende. «Avsi aprirà qui una base per monitorare i vari progetti: dall’affitto delle stanze, alla scuola materna delle suore, ai farmaci per i poliambulatori», continua Fossà: «Si è aperto un capitolo veramente eccezionale per noi. Innanzitutto, per me: la possibilità di aiutare della gente da cui imparo a vivere». È commosso da questo dono: «Prima il non lamentarmi era un proposito moralistico. Ora è uno sguardo nuovo, sulle cose e su di me. È vero, appena ci succede qualcosa che non va, noi portiamo Dio in tribunale. Loro no. Glielo si vede in faccia». È una «umanità nuova» quella dei cristiani in queste terre, capace di ri-creare anche il resto della popolazione «per contagio», dice: «Non c’è disperazione qui. Se i giornalisti scrivono il contrario, è perché la disperazione è nella loro testa. Nelle persone non c’è».