La copertina del nuovo numero.

Chi sono i veri musulmani?

«Dal racconto al giudizio». È questa la formula che ha ispirato il rinnovamento del semestrale voluto dal cardinale Scola. A dieci anni dal primo numero, tutto quello che sta accadendo in Medioriente ha spinto la rivista a fare un passo. Anzi tre…
Martino Diez

Chi sono i “veri” musulmani? Sono i terroristi di Isis che cacciano i cristiani dalle loro case e cercano di cancellarne la presenza fisica, come abbiamo ascoltato alla Veglia di Pentecoste? Sono i migranti che buttano a mare i compagni di traversata perché cristiani? O sono i deputati tunisini - molte le donne velate - che, chiusi in Parlamento durante l’attacco al Museo del Bardo, intonano l’inno nazionale con quel sorprendente verso, così anti-fatalista: Se il popolo un giorno vorrà la vita, il Destino dovrà rispondere? Sono la studentessa egiziana che viene a chiedere una tesi sull’ermeneutica di Gadamer applicata al Corano per «capire meglio me stessa»? Oppure - esperienza di qualche mese fa - il professore di Teheran che dopo un incontro dominato dalla retorica di regime viene a scusarsi per l’atteggiamento «un po’ aggressivo» di un collega, dicendo che l'errore della rivoluzione islamica è stato di aver voluto fare di un universale religioso un universale politico?

Sul piatto della bilancia pesano di più le luci sfavillanti di Dubai o il buco nero di Aleppo, che vista dal satellite sembra disabitata e invece ci sono ancora centinaia di migliaia di persone intrappolate nelle rovine della città? Sono tanti i tasselli del mosaico e non è facile decifrare il disegno complessivo. Per provarci occorre uno sforzo di sintesi, perché vedere non significa automaticamente capire. Occorre passare dal racconto al giudizio.
Ed è proprio questa formula, dal racconto al giudizio, ad aver ispirato il rinnovamento della rivista Oasis, nata più di dieci anni fa per iniziativa del Cardinale Angelo Scola.

Il primo numero della nuova serie, L’Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad, parte da un paradosso che il pensatore tunisino Hamadi Redissi sintetizza così: «Tutti parlano a nome dell’Islam, ma non dello stesso Islam; ognuno lo reinventa nel presente». Tre sono le idee che accompagnano il lettore.

La prima è che questa molteplicità di posizioni, che rende difficile individuare oggi il “vero” Islam, sia il frutto di un preciso percorso storico. Diversi articoli, in gran parte di intellettuali del mondo musulmano, descrivono allora gli alti e bassi di quasi due secoli di confronto con la modernità, tra aperture, false partenze e sentieri interrotti, in Egitto e India, ma anche Arabia Saudita e Iran. Emerge come una costante, anche nei pensatori apparentemente più riformisti, il pericolo di un’ideologizzazione della religione e la tendenza a trattare la tradizione alla stregua di una “cassetta degli attrezzi” da cui attingere risposte pratiche e “moderne” secondo le esigenze del momento. A volte però i risultati sono francamente imbarazzanti, come spiega Wael Farouq a proposito della fatwa sull’allattamento dei colleghi con cui uno shaykh egiziano aveva pensato di risolvere il problema della promiscuità tra uomini e donne sui luoghi di lavoro.
Anche a prescindere da questi casi estremi, l’insufficienza di tale metodo è ormai evidente, come scrive la teologa iraniana Forough Jahanbakhsh: «Una riforma sostenibile richiede una rivalutazione e riformulazione dei principi teologici come prerequisito della riforma giuridica (…). Sporadiche riforme giurisprudenziali, per quanto ben accette, offrono solo rimedi parziali e frammentari».

Di qui - seconda idea guida - l’immagine del crocevia, che dà il titolo alla rivista. I musulmani infatti sostano oggi a un crocevia, al centro del quale sta tragicamente la questione della violenza. In Medioriente è in atto un processo di “de-civilizzazione”, osserva con amarezza lo storico curdo Hamit Bozarslan, e l’idea di poterlo amministrare da lontano, attraverso compromessi di real-politik, è pericolosa e criminale. «Ciò che sta accadendo in Medioriente viene spesso recepito come un fatto di cronaca. Ma non lo è. Le società scompaiono e niente ci dice che domani potremo ancora parlare di una società libica, yemenita o irachena». In Siria o in Iraq si può davvero pensare di limitarsi a “gestire la barbarie”, che è poi il titolo di un pamphlet islamista di qualche anno fa?

E tuttavia proprio la gravità della situazione può diventare - terzo passo - una risorsa, perché è sempre più evidente che dalla crisi attuale e dal terrorismo non si esce con aggiustamenti parziali o con concessioni simboliche. Il compito però è immane e probabilmente superiore alle forze del solo mondo islamico. C’è assoluta necessità del contributo dei cristiani, come osservava padre Samir Khalil Samir in un recente articolo di Tracce (leggi qui). Nell’era globale infatti ogni alternativa va costruita insieme, tanto più che tutte le civiltà religiose, volenti o nolenti, hanno “nella coda dell’occhio” quanto succede altrove.

Si dice spesso e giustamente che l’altro rivela qualcosa di me. Ma perché questo possa accadere, occorre che l’altro non sia ridotto a pretesto per una riflessione autoreferenziale. Occorre cioè accettarlo fino in fondo, capire il significato che dà alle parole e la storia da cui viene, senza presumere di conoscerla già. Solo attraverso questo confronto, a cui anche Oasis desidera contribuire, potrà dispiegarsi fino in fondo la provocazione racchiusa nell’incontro. Solo così si potrà percorrere tutto il cammino della conoscenza.


Cristiani e musulmani nel mondo globale. Oasis rilancia

L'incontro di presentazione della nuova Oasis si terrà:
venerdì 5 giugno alle ore 18, nella sede di Oasis, piazza San Giorgio 2, a Milano.
Interverranno, tra gli altri: il cardinale Angelo Scola; Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.

Dopo venti numeri e dieci anni di vita, il semestrale plurilingue si presenterà con formato, copertina e grafica rinnovati.
La nuova Oasis è anche più “amica” del digitale, per favorire una diffusione più capillare nei Paesi del mondo musulmano, in Medioriente, Africa e Asia, dove la versione su carta arriva con maggior fatica.
La rivista resta l’“ammiraglia” di un sistema articolato di strumenti attraverso i quali la Fondazione Oasis comunica e condivide la sua ricerca: il sito internet www.fondazioneoasis.org e la newsletter periodica in italiano, francese e inglese, le pagine in Facebook (Fondazione Internazionale Oasis) e Twitter (@fondazioneoasis), la programmazione di eventi pubblici e i progetti di ricerca, di cui l’ultimo dedicato a “Conoscere il meticciato, governare il cambiamento”.


Qui, in anteprima, un estratto da uno degli articoli principali del nuovo numero:

Liberi, insopportabili. Via i cristiani dall’Iraq
di Maria Laura Conte

La morsa del Califfo aggrava l’esodo dei cristiani dal Medioriente: sono le vittime di un nichilismo che produce numeri insostenibili di sfollati e muta inesorabilmente l’“ecosistema” a Est e Ovest.

È buio pesto a Mosul nella notte tra il 15 e 16 luglio 2014, quando d’improvviso il silenzio si rompe. Gli uomini neri dello Stato islamico, calati da Raqqa il 10 giugno, lanciano ai cristiani un ultimatum: «Convertitevi all’Islam, pagate la jizya o lasciate la città senza portare nulla con voi entro il 19 luglio a mezzogiorno. Altrimenti vi aspetta la decapitazione».
Da quel momento in poi è l’inferno: è fuga per migliaia e migliaia di famiglie che si mettono in marcia verso villaggi considerati più sicuri, verso il Kurdistan. Ai checkpoint gli uomini di Isis strappano loro tutto, denaro, documenti, le chiavi di casa, perfino gli orecchini. Non risparmiano neppure i neonati, ai quali portano via il biberon di latte, lasciandoli affamati e urlanti.
Nella calura insopportabile di un’estate di sangue viene sradicato quel che restava dell’antichissima comunità caldea di Mosul. L’antica Ninive del libro di Giona, dove nel settimo secolo ebbe origine la liturgia caldea, si svuota degli ultimi quindicimila cristiani. Questo piccolo resto aveva scelto di rimanere nonostante le violenze ripetute, esacerbatesi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, come attesta il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo mons. Farraj Rahho, per citare solo uno tra i tanti casi.
Ma quella notte di luglio la violenza conosce un’impennata: le chiese sono profanate, le croci strappate dai tetti per far posto alle bandiere nere del terrore, tutti i miscredenti cacciati. Una nuova pagina surreale, nella sua tragicità, per Mosul, dopo la caduta in sole sette ore nelle mani di poche centinaia di terroristi a fronte dei 60.000 uomini dell’esercito iracheno.
Da quel momento il terrore dilagante nella piana di Ninive genera un mare di sfollati: solo da Mosul fuggono 500.000 persone, un quarto della popolazione circa. Nel giro di poche settimane naufraga nel Kurdistan iracheno, tra Erbil, Dohuk e Zakho, un milione di persone, che si aggiungono a una popolazione di cinque milioni circa e ai 500.000 profughi dalla Siria.
Non è la prima volta nella storia che i cristiani, per sfuggire a persecuzioni e ingiustizie trovano riparo nella regione alla quale, dopo decenni di scontri con Baghdad (nei quali i cristiani stessi sono rimasti schiacciati pagando un altissimo prezzo), è stata riconosciuta l’autonomia nel 1992. Ricca di petrolio, è considerata l’area più sicura del Paese grazie alla presenza dei quasi mitologici peshmerga, oggi addestrati anche da eserciti stranieri, e nonostante le costanti tensioni con il governo federale che non ha mai sopportato le spinte indipendentiste locali.
Ma è in tutto l’Iraq che il numero degli IDPs (internal displaced people, sfollati), come li definiscono le agenzie delle Nazioni Unite, sta rasentando livelli da collasso: le violenze settarie che hanno incendiato e spaccato il Paese dopo la guerra del 2003 hanno lasciato senza un tetto due milioni di persone, per metà bambini. Si adattano per mesi a vivere in campi allestiti con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil attorno alla parrocchia di Mar Elia) o in edifici in via di costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in piccole casette o negli appartamenti di palazzi ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. Perché in Kurdistan l’attività edilizia paradossalmente ferve: sorprendono gli ambiziosi grattacieli incompiuti che svettano nel centro della capitale e i quartieri residenziali che si intravedono lungo la strada che collega la capitale a Dohuk. Investono qui i ricchi iracheni del Sud, così come stranieri facoltosi, tra cui i turchi, perché la zona è considerata appunto “stabile”.

Trama di destini, non masse senza nome
Finché si leggono nei rapporti delle organizzazioni umanitarie accorse sul campo, le statistiche dei rifugiati e sfollati impressionano, ma finiscono per coincidere con masse di uomini e donne senza volto, ai quali occorre procurare urgentemente enormi quantità di acqua, cibo, vestiti… Gente da organizzare e gestire con progetti specialistici, per esempio di winterization, education, protection, come prevede il gergo tecnico. Ma se ognuna di queste azioni è indispensabile per garantire loro la sopravvivenza, non si può arrivare a confondere con una massa impersonale quella che è una trama articolata di profili singolari e vicende uniche. Ogni storia è diversa, ha in sé dettagli particolari che concorrono a comporre quel fenomeno travolgente, dalle radici lontane, che è lo spostamento di intere comunità da Est a Ovest. Un “trasloco” che va cambiando la geografia umana dell’Iraq, dei Paesi vicini e in parte, forse, benché in modo non misurabile, di Paesi anche molto lontani, fino all’altra parte dell’Oceano Atlantico.
«Se va avanti così, in sei o sette anni non avremo più cristiani in Iraq», sostiene mons. Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil. Ogni giorno pare che una settantina di persone lasci il Paese per guadagnarsi un futuro altrove. Goccia dopo goccia, la costante partenza dei cristiani si configura come un processo inarrestabile, che ha innescato un cambiamento profondo, di ecosistema, a prescindere dalla consapevolezza o meno dei suoi protagonisti. Perché il fatto che a Mosul per la prima volta dal luglio 2014 non si celebri più la messa in quasi duemila anni di storia di presenza cristiana, non può essere tema esclusivo di quella particolare comunità o dei cristiani di qui.
L’emorragia continua che sta dissanguando il Medioriente, almeno da un secolo, da un lato ne cambia la composizione, privandolo di una presenza garante della sua pluralità, come scrisse già nel 2002 non un cristiano, ma un saudita, il principe Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud: «Gli arabi cristiani, in forza della loro pluralità culturale, erano e sono sempre, una sfida costante per la cultura e il pensiero. La loro presenza è una garanzia contro lo svilupparsi dell’arbitrio e dell’estremismo, e di conseguenza, di una violenza che conduce a catastrofi storiche» . E dall’altra la diaspora impianta altrove comunità che custodiscono - e nessun checkpoint di terroristi glielo può sottrarre - il deposito di una tradizione millenaria. Che destino avranno loro, le loro famiglie e il loro patrimonio di cultura, tradizioni e religione? Si “integreranno” fino al punto di confondersi completamente nelle nuove società o inietteranno una differenza nei nuovi contesti? Se si entra in una chiesa a Erbil e si assiste alla messa secondo un rito rimasto intatto nei secoli, celebrato nella stessa lingua dell’apostolo Tommaso che evangelizzò queste terre, o se si ascoltano i racconti di uomini e donne che per fedeltà al loro battesimo si sono lasciati uccidere, sembra impossibile accettare che questa cultura e fede siano destinate a sbriciolarsi nell’innesto in Occidente. Eppure anche questo pericolo incombe, accanto a quello più immediatamente violento di Isis.