Noi, la Cirinnà e il Family Day

Stiamo ricevendo diverse lettere da lettori che si confrontano con la vicenda del Family Day e con l’intervento di Julián Carrón sul "Corriere della Sera". Ne pubblichiamo alcune, come un contributo a capire le ragioni in gioco

L’agonia dei valori umano-cristiani la vide per primo da vero profeta don Giussani, negli anni Cinquanta. Poi, tempo dopo, la vide da grande intellettuale Pier Paolo Pasolini. A noialtri, né profeti né intellettuali, l’agonia fu per la prima volta evidente nel 1974, con la sconfitta del referendum contro il divorzio: era già chiaro che il mondo laico-borghese-sessantottino tirava da un’altra parte, in favore di vento, verso l’autodeterminazione e la libertà sessuale. Tuttavia si pensava che la partita potesse ancora essere giocata, se non vinta, essendo allora in campo sinergicamente la Chiesa italiana, la Dc e una posizione culturale-giuridica per la quale l’indissolubilità del matrimonio era un valore e un dovere civile condivisibile da tutti, perché connesso alla natura umana riconosciuta dalla ragione nella sua verità, e non basato su argomenti di fede. Finì 6 a 4 (59% per il divorzio, 41% contro), che a tennis sarebbe ancora un risultato dignitoso, ma in un referendum è una batosta.
Sette anni dopo, 1981, il copione si ripeté sostanzialmente a riguardo del no all’aborto. L’opinione cattolica si stava sì rendendo conto che la società era secolarizzata e nessuno pensava più di proibire per legge il divorzio; tuttavia quasi tutti pensarono che sul valore della vita, anche di quella del nascituro... e che diamine, l’umana ragionevolezza della maggioranza degli italiani avrebbe arginato la strage degli innocenti! Ma anche quella volta ben pochi capirono.
Si disse allora: beh, la batosta l’abbiamo presa, ma c’è uno zoccolo duro pari al 32% del popolo custode di un giacimento tenace e positivo di valori, da cui ripartire. Anche il Sabato, settimanale tra i più intelligenti e liberi allora su piazza, spese il titolo alla causa della riscossa: «Si ricomincia da 32». Ben presto però, ispirato da don Giussani, il Sabato virò di brutto, e titolò: «Si ricomincia da Uno». Si ricomincia da Uno vuol dire riandare, in forza di un incontro, alla sorgente viva di un’umanità nuova, ricostruire mattone su mattone, daccapo, una civiltà della verità e dell’amore. Non era una strada possibile tra le tante: era la strada. Men che meno era una “scelta religiosa” o una ritirata intimistica (tant’è che, peraltro, opere sociali e impegni politici conobbero un grande sviluppo).
Tutto ciò per dire che sono da tempo straconvinto che i valori che hanno a lungo innervato le civiltà dell’uomo italiano ed europeo, non hanno più vita propria, avendogli da un paio di secoli staccato la flebo. Giussani, Ratzinger e Carrón hanno ben illuminato il fenomeno.
Tuttavia, per quanto riguarda il che fare di fronte al progetto di legge Cirinnà sulle unioni civili, mi sono egualmente posto il problema se non fosse giusto e opportuno partecipare alla manifestazione di Roma. A un certo momento ero quasi deciso a fare il biglietto del treno. Pensavo: ovvio che la legge non salva la famiglia, però può impedire qualche nefandezza, tipo che un bambino venga adottato da coppie omo o qualche moderna ignobile forma di tratta delle schiave come l’utero in affitto.
Alla fine ho deciso di non andarci, pur rispettando le intenzioni, le idee e l’impegno di chi ci va, ma sostanzialmente non condividendole. I motivi sono diversi. Non esclusa la palese sconfortante disarticolazione tra la piazza e la politica: da una parte l’attestarsi monolitico su dei “no” ad oltranza senza misurarsi con il possibile e soppesare tutte le conseguenze, dall’altra i movimenti trasversali e variegati che attraversano le forze politiche (e culturali) in cui i fattori di positività, di apertura, di dialogo, non possono essere trascurati da chi abbia a cuore il bene comune, e quindi il male minore.
I motivi fondamentali sono però altri due.
Il primo è che un atto pubblico di grande rilevanza non può esimersi dal mettere in campo o almeno lasciar trasparire una posizione umana e culturale adeguata alla posta in gioco. Oggi il cristiano deve entrare nel “discorso pubblico” portando il più possibile intera l’originalità della sua posizione (ho trovato su questo molto utile il pezzo di Lorenza Violini su ilsussidiario.net). Produrre un grande sforzo per un obiettivo particolare dentro una posizione complessivamente inadeguata temo che non sia una cosa innocua, ma porti fuori strada.
Qui devo aggiungere un nota bene. Sento tutta la difficoltà, quasi il senso di impotenza - no, meglio: di sproporzione - per il fatto che oggi una posizione cristiana adeguata alla vera posta in gioco stenti a formulare percorsi politici pienamente soddisfacenti. Ma nella storia della Chiesa è successo mille volte. Il sentimento di questa difficoltà è anche doloroso e per certi versi mortificante, ma per quanto mi riguarda, credo che apra a una imprescindibile domanda di crescita della propria autocoscienza, ed indichi quanto lavoro ci sia da fare a tutto campo, con pazienza. Il secondo motivo, per cui a Roma non ci vado, forse non riesco a dirlo bene e magari sembrerà banale. Ma per me è decisivo: ho l’impressione che dentro la complessità di quella manifestazione, di fatto (non faccio processi alle intenzioni), si sia generata anche un’onda in cui quello che ci va di mezzo è proprio il carisma del movimento di CL, ovvero la storicità oggettiva del carisma di Giussani. Un’onda che in nome di valori giusti e magari anche di citazioni di pezzi del magistero, opera una sostituzione del metodo. Ricordo benissimo quando Giussani ripeteva che non desiderava affatto avere ossequiosi discepoli di un discorso, ma figli - liberi! - nelle cui vene scorresse lo stesso sangue.
Questo carisma è una via straordinaria e pressoché unica per far cogliere, attraverso l’incontro e l’esperienza della bellezza, la pertinenza della fede rispetto alla vita e alle domande del cuore dell’uomo, tanto più nella società post cristiana come quella attuale.
L’incontro, tanti anni fa, con questo carisma, mi ha fatto nel tempo recuperare la fede che le giuste asserzioni dottrinali dei preti mi avevano fatto perdere e recuperare quindi, pian piano, anche i valori che da giovane sessantottino, come tanti irridevo. Iniziò un processo di scoperta e di giovinezza mai finito. Quando guardo miei colleghi pensionati che cercano come ingannare un tempo insulso, o certi disgraziati italici o extra perdere euri su euri nelle slot machines, o faccio catechismo a ragazzini già fiaccati da scuole noiose, madri iperprotettive e babbi nulli, o quando porto il pacco del Banco di solidarietà a povere donne sole con quattro figli di padri diversi e dispersi chissà dove... penso sempre - quasi sempre - che quel carisma, nell’integrità della sua storia concreta, è il bene più prezioso che si possa loro offrire. Così, testimonianza e impegno pubblico non sono e possono essere due cose diverse. E quand’anche le vie pubbliche o politiche dell’impegno possibile apparissero, come mi appaiono, in sofferenza (perché non sempre la pappa è bell’e fatta e quasi mai riesce il filotto al primo colpo di stecca), penso che quel bene unico sarebbe andato perso e non avrebbe raggiunto me e i miei contemporanei di quasi 90 Paesi del mondo senza la fedeltà di un resto di Israele a quella novità incontrata.
Nel ’68 molti giessini abbandonarono don Giussani per il miraggio di una maggior efficacia di analisi e di mezzi di cambiamento sociale. Allora il “resto” riprese ad affermare che le forze che cambiano la storia sono quelle che cambiano il cuore dell’uomo. Si è visto negli anni chi è andato fuori tempo e chi no. Se si compromette o si incrina questo tesoro, facciamo solo danni a noi stessi e alla società.
Maurizio, Milano


Sono molto provocato dall’appello accorato di un’amica a partecipare al Family Day del 30 gennaio. In occasione dell’analoga manifestazione del 20 giugno 2015, ci fu detto che l’andare in piazza, nel quadro storico e sociale attuale, era una delle opzioni, libera e legittima, ma che poteva essere del tutto discutibile, in quanto sostanzialmente inadeguata alla realtà. Io invece, ieri come oggi, ribadisco la necessità per la crescita mia e la crescita del nostro popolo di partecipare a questo gesto di unità, libertà e verità.
Abbraccio totalmente il giudizio dato lo scorso Family Day dal cardinale Caffarra e che fa svanire ogni dubbio sulla necessità anche di andare in piazza come forma di testimonianza che non si lascia intimorire da possibili fallimenti di natura “politica”: «Il giorno dopo il Parlamento magari farà questa legge che riconoscerà le unioni tra persone dello stesso sesso. La faccia. Però sappia che è una cosa profondamente ingiusta. E questo glielo dobbiamo dire quel pomeriggio a Roma. Quando il Signore dice al profeta Ezechiele: “Tu richiama” e sembra che il profeta dica: “Sì, ma non mi ascoltano”. Tu richiama e sarà chi è da te richiamato responsabile, non tu, perché tu l’hai richiamato. Ma se tu non lo richiamassi, sei responsabile tu. Se noi tacessimo di fronte a una cosa così, noi saremmo corresponsabili».
Io colgo positivamente questo giudizio che richiama l’urgenza di uscire dall’equivoco diffuso tra di noi che la piazza sia solo un’alzata di scudi ideologica e la testimonianza “nella vita quotidiana” l’unica dimensione ragionevole per noi cristiani autentici. Per me quella piazza esprime una vita e amicizie con persone appassionate al vero e innamorate di Cristo, quindi anche della ragione umana, che sa ancora riconoscere la menzogna: un’unica esperienza che mi ha fatto vedere e capire le cose non a distanza, ma sul campo. Che mi ha fatto scoprire come ricordarsi oggi la verità delle cose e delle relazioni passa anche attraverso le veglie in silenzio. Mi pare insomma che il cuore degli italiani abbia bisogno di essere sostenuto e di vedere qualcuno che gli ricordi la verità facendo riemergere le esigenze e le evidenze che tutto il mondo mediatico tende ad oscurare, ma soprattutto è il mio cuore ad averne bisogno.
In questi due anni in cui mi sono impegnato con le “sentinelle in piedi” ho visto persone mandate dai circoli delle lobby “lgbt” per insultarci, ma ne ho incontrate molte per strada che ci ringraziavano, tante poi si sono unite a noi, anche solo con la preghiera.
Per quanto riguarda me e altri amici, il lavoro culturale ha fatto maturare le ragioni della fede, facendoci comprendere a partire dal giudizio su legami innaturali, cosa sia lo scopo del matrimonio, cosa dice la Chiesa in merito, cosa sia la moralità di cui parla don Giussani in Riconoscere Cristo: «Rapporto con la realtà in quanto creata dal mistero, il rapporto giusto e ordinato con la realtà». E questo ha sicuramente cambiato il modo di tanti di noi di vivere la vocazione e l’affettività.
La proposta del ddl Cirinnà è quella di nobilitare, erigendola a modello, l’unione fra persone dello stesso sesso in nome dell’amore. Guardando alla nostra esperienza ci siamo risposti che il solo amore a cui anela ogni uomo è quello di un altro disposto a sacrificare tutto per la sua felicità. Questo è l’amore del Crocifisso che noi abbiamo sperimentato, che sappiamo essere atteso da ogni persona, anche da chi non lo riconosce. Perché questo amore è negato nel rapporto tra persone dello stesso sesso che si uniscono chiedendo che la loro relazione affettiva sia promossa dallo Stato come un valore? Perché si ama davvero qualcosa o qualcuno solo quando, riconoscendo il fine ultimo inscritto nella sua natura, la si rispetta. E la natura dice che la persona si compie solo nel rapporto con il sesso opposto (come dimostra anche il dato biologico), il solo capace di fecondità.
In un mondo in cui nessuno parla più del fine ultimo e della meta alta dell’amore, desideriamo testimoniarlo nell’esistenza quotidiana e, quindi, ovunque, anche di fronte a un Parlamento che vuole far passare l’egoismo per amore. Desidero comunicare la bellezza della verità e del disegno di Dio sull’uomo e sento la responsabilità di risvegliare la coscienza di chi è raggiunto solo da un messaggio univoco.
Giovanni, Milano


Caro don Julián, il nuovo Family Day sta tornando ad aprire ferite tra noi. Che amarezza ricevere da un amico che stimo l’accusa di subalternità al potere e alla cultura dominante, per il solo fatto di non aver vissuto in trepidante attesa “l’appuntamento con il destino” del 30 gennaio. Si è caricato in questo modo, ancora una volta, l’appuntamento di Roma: «O sei con noi, o sei contro di noi». Che doloroso sintomo di un percorso (tracciato da altri!) che alcuni tra noi hanno deciso di imboccare. Mi sento soffocare di fronte a questo metodo intollerante e ideologico che sembra determinare ogni posizione. Un metodo che sembra volerci chiudere in una tenaglia: da una parte il totalitarismo dei diritti individuali, dall’altro l’intolleranza “cristianista” contro chi rifiuta la logica delle barricate e della contrapposizione tra amici e nemici. Io ho una storia di ideologia, dietro le spalle, e talvolta ne rivedo tutti i sintomi, anche tra noi. Faticosamente ho incontrato il fatto cristiano come risposta alla mia vita. Un fatto che non è entrato in dialettica con me, ma che mi ha sfidato sulle esigenze originali. Uno sguardo commosso, che mi ha costretto a cedere. Per meno di questo, ti assicuro, non sono disposto a vivere l’esperienza della Chiesa e del movimento. Faccio fatica a vivere fino in fondo nella dinamica di affronto della realtà che tu ci proponi (la crosta dell’ideologia giovanile ha lasciato tracce forse inevitabili), ma capisco che la desidero come unica possibilità autenticamente umana, per non ritrovarmi ancora, come nei miei vent’anni, con una posizione senza amore, senza bellezza, senza misericordia. Insomma, senza cuore né ragioni adeguate alle sfide del tempo. Com’è bella la strada, anche se si deve passare attraverso l’incomprensione con gli amici.
Luca, Milano


Caro don Carrón, andrò a Roma. Avevo prenotato il treno, con entusiasmo, prima ancora della Scuola di comunità di mercoledì scorso, durante la quale quello che hai detto e che è accaduto mi ha lasciato abbastanza interdetto. Non capivo. Provavo anche un po’ di rabbia. Ma non ho voluto cedere alla tentazione di lasciar perdere l’inquietudine che mi era entrata dentro, né di chiudere la questione affermando presuntuosamente che io avevo capito e tu no. Così ho iniziato un lavoro. Il mio errore è stato andare subito alle conseguenze. E i conti non tornavano, ed ero inquieto. Se si scivola sulle conseguenze e si frantuma la questione in tanti aspetti, non si capisce più nulla: «Cei sì o no? Manifestazione sì o no?». Invece tu ci ha chiesto di stare sul fondamento della questione. Nessuna legge può rispondere al desiderio di compimento del cuore. E neppure una manifestazione con 10milioni di persone. Per questo dici che la manifestazione non è adeguata: non per dirci di non andare, ma per richiamarci a tenere presente, qualunque sia la nostra scelta, il centro della questione.
Se anche la legge Cirinnà sarà ritirata, se non torna Cristo a regnare nel cuore di ogni uomo, non solo il problema si ripresenterà presto in altre forme, ma altre aberrazioni entreranno nel vivere civile. Non è un invito al fatalismo o al disinteresse. Al contrario, è nostra responsabilità di laici fare tutto il possibile per fermare questa legge che è un male per tutti. Allo stesso tempo, con realismo, dobbiamo tenere presente che il Paese è già cambiato. Il nichilismo lo sta già travolgendo, e non sarà una manifestazione a fermarlo. Ma provare a bloccare questa legge è una urgenza. E io andrò a Roma, grazie a Carrón, avendo nel cuore che le persone che chiedono certi diritti lo fanno per un desiderio distorto di compimento, che è la stessa dinamica per cui io, per primo, pecco cento volte al giorno. Per questo c’è un’urgenza più profonda e vera per ognuno: mendicare Cristo e testimoniarlo con la vita, in ogni occasione. Anche con la manifestazione. Solo così la nostra società tornerà a vivere. Quando ho capito questo, mi ha commosso l’affezione di Carrón a Cristo. E mi pare che la sua posizione sia profetica.
Marco, Forlì


Ho appena letto l’articolo di Julián Carrón sul Corriere della Sera. Sono grata per il richiamo al fondo della questione che pone la sete dell’infinito al fondo di ogni desiderio e, quindi, Cristo come unica risposta. Il nostro compito è quindi la testimonianza di Cristo. Tutte cose che sono state dette anche mercoledì scorso durante la Scuola di comunità. Ma questo non esclude l’impegno civile per contrastare l’approvazione di una legge contraria alla verità sull’uomo e sulla famiglia, nella quale si pone la speranza, come dice Carrón, di trovare risposta ai propri desideri di compimento da parte di talune categorie di persone. Molti di noi si impegnano sul fronte culturale, sociale e politico. Del resto, don Giussani ci ha sempre insegnato che una fede che non diventa cultura non è una fede matura... Chi va a Roma fa un passo in questa direzione, oltre a portare la propria testimonianza quotidiana nei luoghi di lavoro e di umana convivenza in cui si trova. Mi pare che le due cose non si escludano a vicenda, come invece può apparire soprattutto in quello che Carrón ha detto alla Scuola di comunità.
Perché si ha così tanta paura di “schierarsi” con una manifestazione pubblica? Paura di essere strumentalizzati? Ma allora non faremo più niente... I miei amici che vanno a Roma hanno a cuore la testimonianza pubblica di una concezione di persona e di famiglia.
Graziella


Carissimo, ieri sera mentre parlavi del Family Day, mi son girata verso mio marito e ho sussurrato: «Che coraggio». E l’ho ripetuto ad alcuni amici alla fine della Scuola di comunità. Pensavo che, visto il clima, avresti potuto “far finta di niente”, tanto il giudizio lo avevi già espresso chiaramente in altre occasioni. Questa mattina ho aperto gli occhi e il primo pensiero è stato: «Ma che sguardo che ha Carrón sulle persone». Ho detto a mio marito che se tu guardavi così gli altri, quelli che si aspettano dalla legge in discussione la risposta ad un loro bisogno (giusto, hai detto tu), chissà con che misericordia Gesù poteva guardare me. E mi sono commossa... Mi rendo conto che non si è trattato di coraggio, ma di testimonianza di ciò che dà senso alla tua vita. Il tuo sguardo ha un contenuto perché coglie il desiderio buono che c’è in ciascun uomo. Io voglio guardare me stessa così, lasciarmi guardare così, guardare gli altri così! Forse può sembrare banale scriverlo, ma oggi io sono lieta anche se di tutti i miei problemi non se ne è risolto neppure uno. Grazie davvero per la paternità che hai messo in campo ieri sera, un padre che vuole prima di tutto la libertà dei figli. Due fatti che mi hanno colpita. Al termine della Scuola di comunità un’amica è corsa da una persona nella fila dietro di me. Evidentemente aveva discusso della cosa con quella e gli ha detto: «Ora ho deciso: vado a Roma». Risposta: «Che bello che hai deciso tu!». Secondo episodio, parlando con una persona delle tue parole, mi ha detto: «Che bello ieri sera: ho deciso che a Roma non ci vado perché la risposta sono io, non la piazza».
Stefania, Buccinasco (Milano)