La sala di via Sant'Antonio piena per l'incontro del Cmc.

Come cambia una città

A tre mesi dalle elezioni amministrative, il primo di quattro incontri organizzato da Cmc, Fondazione per la Sussidiarietà e CdO per indagare le trasformazioni e le sfide del capoluogo lombardo, tra metropoli e comunità
Paolo Perego

Mancano tre mesi, e le elezioni amministrative milanesi possono dirsi alle porte. Una marcia di avvicinamento già partita, quindi, in cui si inserisce anche un ciclo di incontri dedicato al capoluogo lombardo, partito ieri sera, 10 marzo, nella sala di via Sant’Antonio 5 a Milano. A tema: “Città della comunità. La citta metropolitana, svolta e cambiamento”. Organizzato dal Centro culturale di Milano con la Fondazione per la Sussidiarietà e la CdO Milano, il primo dei quattro appuntamenti in calendario - cinque, con il preannunciato confronto tra i candidati a pochi giorni dall’apertura delle urne - ha portato a confrontarsi Alberto Meomartini, vicepresidente della Camera di Commercio, Giovanni Azzone, rettore del Politecnico, Stefano Boeri, architetto e docente di Storia dell’architettura al Politecnico, e Luca Doninelli, scrittore.

A introdurre tema e personaggi, Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: «Può sembrare una scelta strana mettere al centro del dibattito politico dei contenuti», attacca con ironia: «Ultimamente è più facile parlare di elezioni come sinonimo di schieramenti e risultati. E basta». Ecco, dunque, il tentativo di provare a ragionare con chi mette le mani in pasta, e di cogliere i problemi e le sfide, ma anche la natura e l’identità, di una città che sta cambiando e crescendo. Anche “per legge”, con la sparizione delle province e la nascita, codificata di recente, delle cosiddette “aree metropolitane”.

«Bisogna partire da un dato», premette Vittadini: «Milano è città del dialogo. Storicamente. Del laicato, del popolo, degli imprenditori». Ma anche della povera gente, delle periferie. E città mai “fondata”, in un certo senso: «Se Roma ha avuto Romolo e Remo, Milano ha, nel suo essere, padri che si sono susseguiti nel tempo. Fino a oggi». Da sant’Ambrogio fino ai grandi milanesi illustri del recente passato e del presente. «Mentre la città cambiava. E si reinventava. Come dopo l’abbandono delle fabbriche negli ultimi cinquant’anni».

«Parlo da fruitore di questa nuova città metropolitana», dice Azzone: «L’università vive oggi in questa dimensione nuova». Se il contesto di riferimento nel 1950 era quello di un Paese al decimo posto nel mondo per numero di abitanti, oggi l’Italia ha meno abitanti di tante regioni dell’India. Non solo: una città come Milano è chiamata a confrontarsi con realtà ben più grandi. «Pensiamo a Seul. O a Pechino». Che possibilità ci sono? E come guardare anche ai flussi migratori che «non possono essere considerati un’emergenza» ma ormai sono strutturali del nostro tempo? «Oggi tutto si gioca sul diventare un polo attrattivo non solo economicamente ma anche per vivere». Lo siamo già, di fatto. «Parlo del mio campo, l’università. Ci sono tantissimi studenti stranieri. E molti dei nostri che scelgono l’estero. Competiamo con tutto il mondo, cosa che solo dieci anni fa era impensabile. Serve un progetto. Che tenga conto della natura di Milano. Mediolanum, terra di mezzo, tra produzione e cultura. Dove la vera forza sta proprio nelle persone e nell’incontro tra loro».

«Milano metropolitana è il cielo stellato che appare guardando in basso mentre si atterra la sera tornando da un viaggio», dice Stefano Boeri: «Milano è già metropoli. Il problema è la coscienza di esserlo». Una visione caleidoscopica, quella di Boeri, di una città che non si è sviluppata espandendosi, ma fatta di tanti “centri” che hanno fatto nascere una realtà nuova. «La Brianza, la Valle dell’Olona con il tessile, il Ticino… e così via. La legge oggi ha costretto ad accelerare la riflessione. Ma c’è già la città metropolitana». Fisicamente, come detto. Nelle reti. Quelle di comunicazione, di mercato. E nelle reti del sapere, con le università. Ancora, nei flussi informativi». Quello che manca è la coscienza di essere comunità: «Non ho una risposta su come lo si possa diventare. Ma, certo, tutto ciò che già c’è non basta a “sentirsi parte” nella propria, per fortuna, irriducibile diversità». Boeri traccia comunque alcune strade: «Guardare alla “speranza”. Ovvero, a chi sarà il protagonista del nostro futuro. I ragazzi, ascoltarli, nelle loro esigenze. E poi recuperare i paesaggi: quelli comuni della città, le vecchie fabbriche, i vecchi scali. Ma anche pensare a spazi verdi. E, terzo aspetto, il richiamo alle relazioni “affettive”, ai rapporti, agli incontri tra persone, che spesso hanno prodotto sviluppo e innovazione».

Gli fa eco Meomartini, scettico sulla definizione di “confini” metropolitani per vie normative: «Di fatto sostituiscono la provincia, riducendo la dimensione raccontata fin ora». Il Varesotto, la Brianza, il Pavese, il Novarese… Realtà che hanno fatto sì che a Milano, oggi, ci siano più imprese che prima della crisi: «Con una attenzione: non si può misurare l’area metropolitana per singoli elementi». Il numero di imprese sopra un certo fatturato, il numero di multinazionali… «No. Il valore è dato dalla compresenza di tutto questo». Molto più di una somma, quindi: «Non bastano le eccellenze, la vera forza è nell’insieme. Che è un unicum». Tutto questo comporta una responsabilità individuale: «Dei singoli, ma anche delle associazioni. Vanno protetti i corpi intermedi. Perché storicamente hanno una funzione fondamentale nel costruire rapporti, impegno, solidarietà». Bene comune.

Un bene comune che si legge chiaramente nelle parole di Luca Doninelli, piene di periferie, di linee di autobus, di bar e tabaccherie. Una vita spesso raccontata nei suoi libri. «L’idea del cambiamento assomiglia a un condominio in cui a un certo punto il vicino di casa, di Busto Arsizio, va via e al suo posto arriva uno del Burkina Faso. Questo cambia tutto». Ed è proprio la forza della vita quotidiana a dare un volto nuovo alla società. «Così diventa interessante scoprire un pulviscolo di microcambiamenti che oggi iniziano a trasformare anche i modi di pensare». Una cosa nuova, per una città che «vista dall’alto, dal Pirellone per esempio, mostra chiaramente di essere rimasta ferma per quarant’anni, e di essersi risvegliata solo di recente». Serve una visione di insieme, continua lo scrittore, che superi anche la mentalità “passatistica” di tanti: «La memoria deve diventare storica, ovvero incidere nel presente, esserne parte».

«C’è un io che è chiamato, come in passato, a essere protagonista», riprende il filo Vittadini: «E questo fa la storia». Ma non basta: «Vediamo che l’io non è mai stato da solo. Da sempre la responsabilità dei singoli si è unita». Corporazioni, parrocchie, luoghi, distretti imprenditoriali. «Questo genera una comunità fatta di condivisione, solidarietà, sussidiarietà…». E c’è un terzo punto: «Un io così inquadrato non può che aprirsi agli altri, incrociare tutti: costruire insieme. Come per il Duomo, tirato su dai milanesi che hanno messo insieme i loro soldi, al posto che fare ognuno la propria cappella». È questa sfida a cui deve guardare la politica. E a cui, vincenti o perdenti alle urne, tutti devono partecipare, «accettando anche di seguire idee diverse, per concorrere al bene di tutti».