"Città che fa storia", l'incontro promosso da Cmc, CdO <br>e Fondazione Sussidiarietà.

Cultura: non adrenalina, ma atti d'amore

Dalla storia della città alle prospettive per il suo futuro, passando per educazione, politiche culturali e benessere sociale. Il terzo incontro organizzato da Cmc, Fondazione Sussidiarietà e CdO in avvicinamento alle amministrative di giugno
Giuseppe Frangi

Che ruolo può avere la cultura nel futuro di Milano? Di questo si è parlato ieri sera nella Sala di via Sant'Antonio, durante il terzo incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano, CdO Milano e Fondazione Sussidiarietà in vista delle elezioni amministrative di giugno. “Città che fa storia”, è il titolo che ha accompagnato la serata. E si sarebbe potuto pensare che il tema fosse la cultura come custodia e valorizzazione di una pur straordinaria memoria. Ma l’incontro, invece, ha preso un’altra strada, senza concessioni alla nostalgia.

Moderate dal direttore del Centro Culturale, Camillo Fornasieri, le voci che sono intervenute hanno parlato facendo proiezioni sul presente e sul futuro. «Credo che l’aspetto più decisivo sia quello dell'educazione», ha attaccato Marco Bersanelli, docente di Astrofisica al Politecnico e presidente della Fondazione Sacro Cuore: «L’educazione è una sorgente primaria di energia», non nel senso di perfezionamento un flusso di informazioni, ma, piuttosto, «come maturazione di un soggetto umano libero». «Imparare è sempre un'esperienza», continua Bersanelli, «Milano vanta una grande tradizione educativa. Il sistema scolastico è improntato a un modello misto. È una grande ricchezza. Oggi bisogna investire su questo modello, nella consapevolezza che sono finiti i tempi della contrapposizione. È il momento dell'incontro e della collaborazione tra le migliori energie della società». Come già accade tra alcuni presidi milanesi che hanno costituito una rete per condividere le proprie esperienze.

Che l'incontro tra esperienze e identità diverse sia una grande ricchezza, lo dice la biografia stessa di Andrée Ruth Shammah, regista, al timone di una delle realtà teatrali più vitali della cultura milanese, il teatro Franco Parenti. «Nel 1972, quando siamo partiti, eravamo in tre», ha raccontato: «Testori, cattolico appassionato, Franco Parenti, comunista, ed io, ebrea, che allora ero molto giovane. Ma quando ci siamo messi insieme l'unica cosa che ci interessava era la necessità di parlare dell'uomo all'uomo». Invece secondo Shammah oggi questa spinta di fondo sembra essere stata sostituta da un’idea di cultura come “eventificio”. «Ci vogliono più atti creativi che facciano nascere cose che prima non c'erano». Quando Strehler provava al Piccolo “piccolo” (la vecchia sala di via Rovello), ricorda Shammah, «tutta la città sapeva che sarebbe nato qualcosa che non si era mai visto». La cultura a Milano non ha bisogno di adrenalina ma di atti d'amore, cioè atti di ripetizione, pieni di intensità. «Da questo punto di vista non può essere la politica a decidere quali rischi devi correre», continua, «la politica deve solo metterti nelle condizioni di rischiare. Ma il rischio è tutto nostro. Semmai la città deve lavorare perché non si lascino nella solitudine i talenti che la popolano».

«La politica continua ad provare disagio nei confronti della cultura, perché non sa bene a cosa serve», le fa eco Salvatore Carrubba, assessore per la giunta Albertini, oggi presidente del Piccolo Teatro di Milano. «È un peccato mortale pensare che la cultura non sia altro che una generazione di eventi. E quindi di consenso. Il compito di chi governa la città deve essere un altro: quello di garantire la crescita del pluralismo dei soggetti culturali e di badare alle qualità dei luoghi».

A proposito di luoghi e pluralismo, interviene Luca Doninelli, scrittore, che ha raccontato con grande efficacia due esperienze vissute di recente: «Ho portato due ragazzi con forti disagi che seguo per Cometa a conoscere il mondo dei rapper milanesi. Dal vivo. E mi sono ritrovato in un girone infernale: una cantina in zona Maciachini, che, invece, per quei ragazzi era un paradiso. Era un minuscolo studio di registrazione dove lavora un bravissimo rapper italo-eritreo. L'ho ascoltato e mi ha aiutato ed entrare nel mondo dei due con cui ero andato». La seconda esperienza è stata un convegno sul valore della speranza nella cura, tenuto all'Istituto dei tumori su iniziativa del cappellano. «In un ospedale entrano persone fragili, che hanno aspettative enormi di fronte a chi le cura: quindi quello che il medico pensa della vita passa in modo diretto verso di loro». Doninelli ha fatto questi due esempi per mostrare che i luoghi non sono più quelli che pensiamo abitualmente: «Anche le cantine e gli ospedali sono luoghi di cultura. Ci vuole un umanesimo personale, che non sarà mai un assessorato a garantire. Tocca alle persone».

Salvatore Carrubba condivide la prospettiva dello scrittore: «La cultura ha a che fare con il sociale: deve essere di tutti e per tutti». Esiste un rapporto tra cultura e salute, così come tra cultura e benessere sociale. «Ma per fare questo, bisogna democratizzarla. Bisogna che le istituzioni siano capaci di attrarre tutti, per aumentare il consumo culturale». E poi, a Milano, diventa anche fattore competitivo. «In questo il Salone del mobile - che si è chiuso pochi giorni fa - è un modello», conclude Carrubba. Come aveva scritto Giuseppe Rovani: «Non c'è mai stata stasi, ma cambiamento». Ed è la cultura ad alimentare il cambiamento.