José de Jesus.

«Dall'amore nessuno scappa»

La galera, le evasioni. Poi il carcere di Itaùna, con un innovativo sistema di detenzione senza guardie. E alcuni incontri che gli cambiano la vita. Di lui ha parlato anche Carrón, agli Esercizi della Fraternità. Ecco chi era José de Jesus...
Isabella Alberto

Appassionato di calcio, quando giocava l’Atletico Mineiro, la sua squadra, si metteva su una spalla un asciugamano con il simbolo del suo club. «Porta fortuna», scherzava. José de Jesus era abituato a guardare le partite in soggiorno con i tre figli di Marlene, a Itaúna (Minhas Gerais), in Brasile. Nel 2011, poco prima di morire a cinquantasette anni, la vita di José era una festa continua: era un modo per dimostrare la sua gratitudine per tutto il bene ricevuto e per poter finalmente essere un uomo libero dopo molti anni di prigione.

Nato a Nova Lima, una città vicina a Belo Horizonte, José de Jesus era cresciuto in una famiglia con nove fratelli. Donna Mercês, sua madre, vedova, aveva allevato i figli da sola. Il posto dove vivevano era semplice, ma José non voleva adeguarsi a quella vita: da adolescente cominciò a rubare, e a compiere aggressioni. Più volte la polizia si presentò a casa per arrestarlo, e per sua madre ogni volta era un dolore enorme. Un giorno José scappò di casa e tutti pensarono che fosse morto. Visse per strada commettendo crimini in diverse città dello Stato. La sua vita era una ricerca, ma viveva nel vuoto.

Frequentava cattive compagnie, e fu arrestato varie volte. Dopo gli arresti era spesso evaso, grazie al fatto che era molto alto e robusto. La polizia della regione lo conosceva bene e lo vedeva come un reietto della società. Dopo l’ennesimo crimine, venne condannato a ventisette anni di prigione; sembrava che non avesse più speranza. Nelle prigioni comuni viveva come un animale, stipato con decine di altri uomini nella stessa cella, mangiava male, e non aveva nessuna prospettiva di cambiamento.

In quel periodo, a Itaúna, la città dove José era detenuto, arrivò Valdeci Ferreira, un avvocato e teologo che per vocazione aveva deciso di dedicarsi ai carcerati, unendo la sua professione alla sua condizione di «servo di Dio». Valdeci visitò la prigione: le condizioni in cui venivano trattati i prigionieri erano disumane e le celle erano sovraffollate. Deciso a trovare soluzioni alternative, svolse studi e ricerche sul recupero dei prigionieri, e scoprì il metodo Apac grazie al libro Meu Cristo Chorou no Cárcere ("Il mio Cristo pianse in carcere"); riuscì ad avere il numero di telefono di Mário Ottoboni, l’ideatore e fondatore del metodo, e si recò nella città di São José dos Campos (São Paulo) per conoscerlo di persona. Tornò con la certezza che recuperare una persona era possibile sempre. Allora con quindici amici fondò Apac Itaúna nel 1997, rompendo le barriere del pregiudizio e guadagnandosi la fiducia delle autorità locali.

Valdeci presentava ai detenuti la nuova proposta, con le sue regole ferree, e durante una di queste visite incontrò José. La sua fedina penale era lunga, ma Valdeci era sicuro che anche per lui il metodo Apac sarebbe stato decisivo. José accettò, e nel 2000 ottenne il trasferimento. Nell'Apac di Italùna, a partire da quell’anno le cose cominciarono a cambiare.





















Appena arrivato, José venne chiamato per nome, gli furono tolte le manette e ricevette un nuovo vestito. Nelle unità Apac non ci sono uniformi o numeri identificativi, non si viene trattati come prigionieri, ma come persone che posso risollevarsi. La disciplina è rigida: ci si alza alle 6 del mattino, si rifanno i letti e si mette in ordine la cella. Alle 7 si prega insieme e alle 7.30 viene servito il caffè. Dalle 8 alle 17 si lavora. José, durante i primi anni all’Apac, si dedicò ai lavori manuali come ogni nuovo arrivato; l’artigianato vuole far riflettere sugli errori, con l’assistenza dei volontari, che svolgono un lavoro psicologico e spirituale aiutando i carcerati a comprendere la propria dignità e valore. Valdeci lo sostenne così tanto che José si riferiva a lui come a «il padre che non ho mai avuto».

Non aveva istruzione, quindi fu indirizzato alle scuole serali nella stessa unità. Là ricevette un’attenzione che non avrebbe mai immaginato, con insegnanti che rispiegavano le stesse cose tutte le volte che era necessario, e che si rallegravano per ogni sua conquista. Prese gusto per lo studio e si diplomò in meccanica. Diventò un esempio dell’Apac: dopo soli due anni conquistò la fiducia dello staff, tanto che gli diedero perfino la funzione di detentore delle chiavi della prigione. A un giornalista che gli domandava perché non avesse mai tentato di fuggire, José rispose: «Dall’amore nessuno fugge». La frase ora è dipinta sul muro dell’Apac Itaúna e di diverse altre sedi.

Quell’amore José lo aveva visto nella paternità di Valdeci e nell’accoglienza dei volontari che non chiesero mai quale crimine avesse commesso per essere lì. In quei piccoli gesti quotidiani, dal lavoro in cucina al pulire la cella, José riscoprì la gioia di vivere. Nel 2003 fu anche scelto per rappresentare l’associazione a Brasilia, durante la consegna dei premi alle istituzioni beneficiarie del programma di Senai/Solidário. Ricevette il premio dalle mani dell’ex presidente Lula.





















L’autista dell’unità Euler Moraes diventò grande amico di José, visse con lui per molti anni. Fu lui ad aiutarlo a cercare la sua famiglia dopo diciassette anni senza notizie. Trovarono donna Mercês a Cachoeira do Campo, e lei fu felicissima di ritrovare suo figlio in buone condizioni. José sognava di portarla a vivere con sé. In quegli anni da una espressione dura e sofferente nacque un sorriso: lavorando e studiando stava capendo quale posto avere nella società. Quando ebbe il regime di semilibertà, José incontrò Marlene, una volontaria venuta all’Apac per chiedere aiuto per uno dei suoi tre figli con problemi di droga. Josè si innamorò quasi subito di lei. «Abbiamo cominciato a vederci e dopo qualche mese mi chiese se avrei potuto accettarlo nonostante il suo passato», racconta Marlene: «Mi disse che per lui la cosa più importante era il presente e il futuro. Allora gli dissi di sì, e uscito di prigione venne a vivere in casa mia. È stato un padre eccellente per i miei figli. Diceva che all’Apac aveva ricevuto così tanto affetto, che lo voleva passare ai ragazzi. E con l’aiuto di Dio, José li ha guidati con il suo esempio e il suo amore, aiutandoli a cambiar la loro vita».

Durante gli ultimi anni in Apac, José poteva trascorrere la giornata di lavoro fuori dal carcere, e tornare solo per dormire. Finì il suo periodo di pena dopo undici anni, diminuendo la durata della pena grazie ad una legge per cui ogni tre giorni di lavoro viene tolto un giorno di detenzione. Ma poté godere solo di pochi mesi di libertà prima dell’incidente che lo portò alla morte.

Dopo essere stato aiutato dall’Apac, tornato in libertà decise di lavorare in quella stessa associazione; non aveva molte ambizioni, e si dedicava agli amici e alla famiglia che stava costruendo con Marlene. Continuò ad andare in Chiesa: «Dio viene prima di tutto», diceva. A volte perfino canticchiava i canti che gli rimanevano in mente dopo le celebrazioni. Non si stancò mai di rappresentare l’Apac e di testimoniare la ricchezza di un metodo che per lui fu la svolta di una vita. E forse ora sarebbe d’accordo nel dire che l’esperienza vissuta in Apac è la concretezza della proposta fatta da Papa Francesco nell’Anno della Misericordia: «Dio viene sempre presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona (...) perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono».