Aleppo.

Il «terremoto quotidiano» di Aleppo

Padre Ibrahim, parroco in Siria, racconta del tragico momento che sta attraversando la sua città. Le bombe, i morti, la distruzione: uno scenario in cui, da più di cinque anni, i frati «si fanno carico delle croci della gente», ormai sempre più pesanti

Carissimi amici,
con grande amarezza nel cuore abbiamo accolto la triste notizia del terremoto in Italia. Da subito abbiamo offerto le Sante Messe, le preghiere, le sofferenze e le fatiche per le anime dei morti, per i feriti, per i familiari e amici delle persone e delle famiglie colpite. Continuiamo a pregare per tutti voi.

Ad Aleppo, noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo che non accenna a finire, in una crisi assurda che dura da più di cinque anni; continua la nostra Via crucis e la lunga agonia del popolo siriano. È un’agonia lenta: a questa parte del Corpo mistico della Chiesa manca sempre di più il fiato, le forze declinano, consumate dalla flagellazione e dai colpi.

Il periodo passato, in particolare, è stato di infinita tristezza per le atrocità e i danni subiti a causa delle bombe e dei missili che hanno continuato a cadere senza tregua sulle abitazioni e sulle strade. Nelle visite alle case danneggiate notiamo danni sempre più ingenti, causati da armi sempre più sofisticate e in grado di distruggere sempre più in profondità e “qualità”.

La sofferenza tocca sempre più da vicino gli abitanti di Aleppo, compresi i cristiani. Per rendervi partecipi, vi racconto tre fatti che ci sono accaduti in questo periodo.

Il 15 di agosto, nel giorno della festa dell’Assunta, George Haddad, un giovane trentenne sposato con un figlio piccolo di sette anni, con la sua giovane famiglia era andato a far visita ai suoceri. Erano tutti seduti tranquilli in casa, sembravano al riparo da possibili attacchi, quando improvvisamente un missile è esploso sulla strada causando distruzione e morte. Una scheggia del missile ha colpito il cuore del giovane, causandone la morte istantanea. Ha così lasciato una giovane moglie e un bambino di sette anni.

Il 25 agosto, in pieno giorno, un missile è caduto su un edificio abitato a Jabrieh, una zona affollata in prevalenza da famiglie povere. Il missile, con grande capacità di distruzione, ha provocato la morte di cinque persone, decine di feriti e danneggiato molte di case. Il 26 agosto, Bassam, un bambino di otto anni, mentre giocava con i suoi amici nel giardino della chiesa, è stato colpito da una pallottola alla testa. Era figlio unico di due giovani coniugi. Da subito i medici hanno diagnosticato la morte cerebrale del piccolo, i suoi genitori però non riuscivano ad accettare, a capacitarsi, sperando in un miracolo dal cielo. Il bimbo è rimasto per giorni inchiodato al ventilatore meccanico, morto, ma con un cuore che palpitava. La mamma, nonostante non riuscisse a staccarsi dal figlio disteso immobile nel letto del reparto di terapia intensiva, lunedì 29 agosto è venuta con suo marito alla Messa. Mamma Kinda mi diceva che «questa croce è veramente pesante». Le ho risposto che questa croce non era soltanto sua, ma di tutta la chiesa di Aleppo e che la portavamo insieme, con le mani distese in preghiera non solo per Bassam, ma per tutto il Paese che vive ormai come fosse anch’esso in stato di morte. Dopo giorni interminabili e di massima sofferenza, il 30 agosto, verso il tramonto, è arrivata la notizia che il cuore di Bassam si era fermato. Il fermarsi del cuore è stato un segno di misericordia nei suoi confronti, ma soprattutto per i suoi genitori che erano ormai inchiodati con lui al letto, col cuore straziato.

Il giorno dopo, ai funerali, è stata per me una lotta terribile contro il caos e la disperazione che tentavano con tutti i mezzi di regnare nel cuore della madre, del padre e di tutta la gente. Ho passato la mattinata seduto di fronte ai genitori, accanto alla salma, per prepararli a vivere con serenità quel momento come momento di preghiera e di comunione con il loro figlio. È stata una lotta difficile anche con i gruppi scout che facevano a gara a organizzare grandi manifestazioni per le strade, facendo rumore e suonando. È stata un’ardua battaglia con i molti parenti che pianificavano di portare la salma lungo le strade, danzando come se fossero a una festa di nozze, per manifestare il dolore e la disperazione. Alla fine, il Signore della pace ha prevalso e abbiamo potuto celebrare il funerale con calma, in un’atmosfera di profondo raccoglimento e di preghiera.

Nell’omelia, di fronte a una grande folla che gremiva la chiesa, ho parlato dell’immagine di Dio, che si riflette attraverso la vita di Gesù, di un Dio tenero, buono, misericordioso e innamorato dell’uomo, che pensa al bene ultimo degli uomini e sa bene come fare per farli giungere a questo bene, anche attraverso il male che esiste nel mondo. Questa immagine del Dio buono, ho detto, viene demolita in modo sottile e qualche volta invece in modo diretto dal nemico, soprattutto nei momenti più drammatici come può essere il funerale dei propri cari. Sono tentazioni terribili contro la fede in un Dio buono, che nonostante sia onnipotente, non impedisce il male legato alla libertà dell’uomo, ma può far nascere il bene dal male, la vita dalla morte.

Così, nonostante tutta la tristezza e l’agitazione iniziale, durante il funerale ci è stata donata una pace che poteva venire solo dall’alto. Durante le condoglianze, al termine della giornata, si è riusciti perfino a strappare dei sorrisi dal volto dei genitori e dei familiari di Bassam. La giornata, passata in preghiera e con uno spirito di raccoglimento, è stata un miracolo, accolto e testimoniato come tale da tutti i presenti: è stata una testimonianza della risurrezione di Cristo.

Così è Aleppo: una città di distruzione e di morte. Non sono sicuro che esista ancora. Ogni giorno accadono storie come queste, dolori di genitori che perdono i figli o di figli che perdono i genitori. La gente è sempre sotto shock e soffre tantissimo. Noi frati ci facciamo carico della croce quotidiana della gente, una croce che diventa sempre più pesante. Passiamo le giornate nel dolore e nella fatica, fra le visite agli ospedali, l'accompagnamento dei moribondi, la celebrazione dei funerali, le visite alle case danneggiate e alle famiglie senza tetto. Il cuore però è attento a una sfida assai difficile, quella di custodire la fiamma ardente della fede seminato con il Battesimo nel cuore di ogni fedele di Aleppo, in mezzo a questa grande tempesta che soffia da più di cinque anni e che rischia di distruggerla continuamente.

Grazie dal cuore. Un grazie ripetuto da noi sempre in forma di preghiera, per tutti voi che pensate a noi, che pregate per noi e che continuate a sostenerci con tutti i mezzi possibili.

Mi si strazia il cuore a condividere le sofferenze della mia gente qua ad Aleppok ma quello che è successo ultimamente in Italia, cioè la morte di centinaia di persone e di tanti altri coinvolti nel terremoto, mi ha aperto nuove ferite. Li sento come se fossero i miei parrocchiani. Dal primo istante in cui ci è giunta la notizia degli eventi catastrofici del terremoto abbiamo offerto le Sante Messe, le nostre preghiere, le sofferenze, la fatica dei nostri sacrifici quotidiani per gli italiani deceduti, per i loro familiari ed amici. Abbiamo fatto questo perché siamo uniti, siamo un solo Corpo, non per caso: è una scelta fatta dal Signore e una grande responsabilità di carità e di comunione.

Nel nome della mia gente, dei parrocchiani e in modo speciale dei nostri ragazzi, vi ringrazio per le preghiere che fate per noi. Continuate per favore con insistenza a pregare: vogliamo vincere la guerra con la preghiera. Un grande saluto pieno di affetto e di carità da parte nostra ad ognuno di voi.
Uniti nella preghiera.
Che il Signore vi benedica.

Frate Ibrahim, Aleppo (Siria), 14 settembre 2016