Antonio Polito, Giorgio Vittadini e Luciano Violante.

Prima del voto, dove inizia il cambiamento

Il 24 ottobre, il primo incontro di una serie al Centro Culturale di Milano in vista dell'appuntamento del 4 dicembre. Nelle parole di Luciano Violante e Antonio Polito, una riflessione sulla Costituzione. E sul bisogno del Paese, oggi
Fabrizio Sinisi

«Siamo qui per evitare una logica da tifosi, perché svilisce la questione. Il punto è recuperare il senso del vivere insieme: se tu non recuperi l’idea di un vivere insieme, di un bene comune, qualunque sia l’esito del referendum, sarà una sconfitta». Così Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, introducendo il primo di un ciclo d’incontri di approfondimento sul referendum a cura del Centro Culturale di Milano. «Il senso di questi dibattiti è insegnarci a vivere così», spiega Vittadini: «Se si vota in un clima che rende coscienti, il voto, qualunque esso sia, non è buttato via». La prima domanda è: la Costituzione italiana deve cambiare?

I due ospiti sono due grandi esponenti di questo clima diverso, ed entrambi non si sottraggono alle provocazioni dei temi offerti. Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei Deputati, nonché giurista di lungo corso, aiuta a guardare la questione a partire dalle sue radici storiche. La Costituzione italiana fu scritta, infatti, in un contesto e in un clima per molti aspetti diverso dal nostro. L’elemento più evidente è una serietà da parte dei partiti politici – e della fiducia che in essi il Paese ha storicamente riposto – andata incontro a una crisi progressiva: «Uno dei criteri basilari della stesura della Costituzione era una cosiddetta “instabilità”: il criterio di stabilità non era affidato alla Carta, ma ai partiti. Il meccanismo farraginoso del bicameralismo perfetto era perciò assolutamente voluto. Fu una scelta di grande coraggio».

La questione, dice Violante, è che la stabilità governativa era in passato garantita da una disciplina dei partiti assente oggi. «In Assemblea costituente non è che andassero tutti d’accordo», spiega: «C’erano anzi lotte anche molto pesanti. Ma quell’incontro tra forze politiche con visioni del mondo opposte fu possibile perché c’era una storia comune: la tensione comune verso un tentativo di dare stabilità e unità al Paese. Spesso il compromesso viene considerato un "inciucio", un segno di malaffare. Invece con l’avversario ci devi parlare: è fondamentale oltrepassare la logica dello scontro e aprire una stagione di vero dialogo istituzionale».

Violante documenta questa storia comune con vari esempi: «Quando Kissinger incontrò Aldo Moro, si lamentò con lui della continua mutevolezza del Governo italiano: in un solo anno infatti i ministri degli Esteri erano già stati due. Ma Moro gli rispose che il punto non era che ci fosse sempre la stessa persona, ma che venisse portata avanti coerentemente la linea di Governo, indipendentemente da chi fosse chiamato a interpretarla». E racconta di come lo stesso De Gasperi, nel 1953, quando nella votazione la sua legge elettorale non passò di soli ventimila voti, respinse la richiesta di ricontare i due milioni di schede nulle. Sarebbe stato possibile, e plausibile, ma lui rifiutò, «per non dividere ulteriormente il Paese: e questa fu di fatto la fine della sua carriera politica».

Disegna un percorso, Violante, in cui emerge quanto elefantiaco e statico («esiste, in questa forma, solo in Romania») possa essere il sistema italiano del bicameralismo paritario, e come questa staticità, sempre gravata dal rischio dell’immobilismo, sia stata finora superata, appunto, solo grazie a un clima di collaborazione, in una disponibilità al dialogo e al sacrificio. Un clima che è andato cambiando sulla pressione di tanti aspetti – femminismo, Sessantotto, fine della grande industria, globalizzazione – e poi brutalmente e «traumaticamente interrotto dall’omicidio di Aldo Moro. Una certa diffidenza, un certo clima inizia allora: perché la presenza dei terrorismi segnava drammaticamente la perdita, da parte dei partiti, del controllo sui processi sociali».

Anche Antonio Polito, vicedirettore del Corriere della Sera, denuncia come problema primario un clima estenuato e conflittuale: «Si è creata una situazione politica delicata e anche pericolosa: dopo il 4 dicembre, verrà il 5, e bisognerà prepararsi come comunità politica a gestire le conseguenze dell’esito. Le previsioni apocalittiche, da ambo le parti, sono del tutto infondate, ma è legittimo interrogarsi sulle modalità di un cambiamento che pure è necessario, e dove questo cambiamento può portare. C'è stata una forte personalizzazione del referendum, poi abbandonata. E una legge elettorale pensata per una Costituzione riformata, che il Premier si è detto disposto a cambiare anche in parti sostanziali». Sono temi che aprono molte domande: «Bisognerà, nel mese a venire, incoraggiare azioni come questa di stasera, presentazioni e approfondimenti di contenuti, non degli slogan. La questione è di fondamentale importanza e non può essere più trattata con questa asprezza. Occorre mettere le basi di un vincolo di comunità che renda possibile, a prescindere dall’esito, l’inizio di una strada».

Un concetto, quello di comunità, ribadito anche da Violante: «Una cultura cresce attraverso legami di comunità, vincoli di comunità; occorre lavorare sulle ragioni più che sulle emozioni». Aggiunge poi un aneddoto: «Quando fu scoperta l’America, iniziò in Europa l’importazione di cacao. Subito in Italia si aprì un dibattito: il cacao era da considerarsi un solido o un liquido? I domenicani sostenevano che il cioccolato era un solido, e non poteva quindi essere assunto durante i digiuni e prima della Comunione. I gesuiti invece lo ritenevano un liquido. La controversia durò centododici anni e cinque Papi, fu affidata infine a un teologo, che, rifacendosi ad Aristotele, stabilì che il cacao era "solido in potenza, ma liquido in atto”: poteva perciò essere liberamente prodotto. Tuttavia, quando a quel punto, ottenuta il nullaosta, si provò a produrlo, il mercato era già tutto occupato dai cioccolatai olandesi, tedeschi e svizzeri. I giochi erano, quindi, già tutti compiuti. Questo semplicemente per dimostrare un fatto semplice: lì dove tu non decidi, la storia non ti aspetta; lì dove non decidi, decidono poi altri per te». E aggiunge, significativamente: «Una democrazia muore per suicidio, non per omicidio; una democrazia che non decide non è più una democrazia. La democrazia deve essere “decidente”, pena la sua perdita di senso. Alla rappresentanza occorre affiancare una reale possibilità d’azione, o la democrazia stessa, lasciata inane, è destinata a implodere».

Il secondo incontro, dal titolo "Bene comune, riforma della rappresentanza delle Regioni e del Parlamento", avrà luogo martedì 22 novembre, presso la sala di via Sant’Antonio 5, Milano. Interverranno Antonio D’Atena, presidente emerito dell'Associazione Costituzionalisti e dell'Istituto Studi Regionali, Gaetano Quagliariello, senatore, e Lorenza Violini, docente di Diritto costituzionale alla Statale di Milano.