La sede della comunità "L'Imprevisto".

Scoprire di nuovo la luna

Dal baratro della droga all'inizio di un cammino di rinascita. La storia di dieci ragazzi, raccontata al Teatro Flaminio, in occasione della giornata delle "dimissioni": la conclusione del loro percorso nella comunità di recupero "L'Imprevisto"
Paolo Perego

La platea piena. Quattrocento, cinquecento persone tutte lì solo per loro. Autorità della città, il Vescovo, parenti, amici, nuovi compagni di scuola e colleghi di lavoro. Sette ragazzi e tre ragazze, con le loro famiglie, che davanti a tutti hanno raccontato la vita, le cadute e la tragedia della droga. Ma anche della rinascita che li ha portati, ora, non alla fine di un percorso, ma all’inizio di un cammino.

È accaduto sabato 17 dicembre. Al Teatro Flaminio di Pesaro va in scena uno spettacolo bellissimo. Non una commedia, non un concerto. Ma, in qualche modo, è comunque un’opera d’arte: «Il cuore di questi ragazzi. Infuocato, ardente, tribolato e bellissimo nella sua drammaticità. Che si muove solo se accolto, abbracciato e amato». Basterebbero le parole di Silvio Cattarina, anima dell’“Imprevisto”, comunità di recupero per ragazzi devianti e tossicodipendenti della città marchigiana, a sintetizzare la giornata delle “dimissioni”, ovvero la festa per chi ha completato il suo percorso ed è tornato «alla vita», come hanno raccontato alcuni di loro.

E c'era tutta la comunità ad accompagnarli. Quella delle ragazze, il Tingolo, che hanno aperto la mattinata con un “lavoro” su Bob Dylan, proponendo l’ascolto di alcuni suoi testi, accompagnate alla chitarra da Eugenio Della Chiara. A seguire, anche la comunità maschile, con una pièce pirandelliana ispirata al racconto “Ciàula scopre la luna”, perché, ha suggerito un amico ai ragazzi, «avete una ferita, che vi ha portato qui. E non dovete chiuderla, soffocarla. Se no non scoprirete mai la luna come Ciàula».

E dopo un saluto dell’amico Paolo Cevoli, il noto comico romagnolo affezionato da anni alla comunità pesarese, tocca a loro, ai “dimissionari”, raccontare di sé. Delle loro storie. Delle fatiche del diventare grandi. Quelle di Beatrice, poco più che ventenne, con un’infanzia difficile in famiglia: «Crescendo non sono più riuscita a costruire nessun legame. Al posto che farmi aiutare, ho sempre preso le vie “più facili”: inganni, sotterfugi, trasgressioni». Oggi suo padre la guarda su quel palco: «Si è riaccesa la speranza, in me e tua madre, mentre ti vedevamo cambiare. E siamo cambiati noi, avendo ricevuto il regalo del poter affrontare con umiltà quello che la vita ci porta».

E c’è Riccardo, vent’anni. «Ho cominciato molto giovane. Avevo la ribellione nelle vene», inizia a raccontarsi: «Ho incontrato la droga in un momento di confusione, di rabbia. A diciassette anni Riccardo non esisteva più. Non c’è cosa peggiore che essere morti da vivi». Arriva all’Imprevisto come alternativa al carcere. «Per quello avrei avuto tempo, pensavo. Non mi facevo avvicinare da nessuno. Mi dicevano che ero come “repellente”». Tre anni e, come goccia dopo goccia, «mese dopo mese, qui non smettevano di scommettere su di me». Ci è voluto poco per iniziare a fidarsi, a un certo punto, e scoprire che «non ero morto, che la vita poteva essere meravigliosa. E che la mia ribellione non poteva essere contro la vita ma tendere a essa».

«Come sa chi ha vissuto questa esperienza, ci vuole forza per gridare “ho bisogno del tuo aiuto”», dice oggi la mamma di Daniele, vent’anni. Famiglia per bene, sani principi. Ma già a undici anni è arrivato l’alcool, poi la droga, prima leggera, poi pesante. Coi genitori che si accorgono e non riescono a fermare la cosa. E il dolore di una madre, «quello che la stava uccidendo», dice Daniele, l’unica cosa che riesce a riaprire la partita. «Ci vuole coraggio a riconoscere la propria impotenza», dice ora la donna: «Perché alla tua sofferenza avevo dato un nome ma non un luogo per rinascere». E invece è arrivato l’Imprevisto, coi suoi «“cesellatori” dell’animo giovanile che hanno saputo rispondere al grido d’aiuto, tendere la mano, sorreggere e suscitare nuovi desideri».

«Nulla del dolore di questi ragazzi può essere inutile, perduto», ha detto ancora Cattarina, definendolo un “inestimabile tesoro”: «Serve accoglienza. Serve la misericordia. La sofferenza, illuminata dall’accoglienza, cambia la sorte della persona, della società, dei popoli». E, intanto, fa rinascere questi ragazzi.