Giovanni Tamburino e il ministro Paola Severino.

E se imparassimo ad andare oltre la pena?

Celle sovraffollate, recidiva al 90%. Questa la situazione in Italia. Non dappertutto. Dopo una visita al Due Palazzi di Padova, Giovanni Tamburino, capo del Dap, spiega quanto «è necessario che la detenzione diventi solo l'"extrema ratio"»
Paola Bergamini

I numeri sono allarmanti. Le carceri italiane scoppiano: 66.271 detenuti a fronte di 45.568 posti disponibili. La realtà carceraria in Italia, come ha detto recentemente il presidente Napolitano, «non fa onore al nostro Paese, ma anzi ne ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee». È sicuramente il punto più drammatico della crisi del nostro sistema giudiziario. Non c’è però solo il problema del sovraffollamento, ma della possibilità di un percorso riabilitativo per chi deve scontare la pena per il male commesso. E anche su questo fronte i numeri parlano chiaro: la recidiva reale si attesta intorno al 90%. Ma il tasso si abbassa al di sotto del 2% per quei detenuti che lavorano regolarmente. Un’opportunità che è possibile offrire ancora a pochi carcerati. Mancano i fondi, manca una legge. Ma è sicuramente una strada da percorrere di cui si è resa conto ancora di più il ministro della giustizia Paola Severino, che a settembre è andata a visitare il Due Palazzi di Padova dove ha incontrato i detenuti impegnati nelle varie attività lavorative della cooperativa Giotto. Ad accompagnarla Giovanni Tamburino, capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). «In questi mesi il Ministro, proprio per rendersi conto della situazione, ha visitato le carceri partendo dalle realtà più avvilenti. Spesso si è presentata senza preavviso, per evitare protocolli e cerimoniali. Ha sempre cercato un contatto diretto con le persone. Non solo con i detenuti, ma anche con gli agenti di polizia penitenziaria».

La realtà padovana lei la conosce da molti anni. Cosa la colpisce?
È sicuramente una delle esperienze più avanzate sia dal punto di vista lavorativo, sia di quello della riflessione. Accanto ai laboratori di lavoro effettivo, mi preme sottolinearlo, c’è il percorso che viene fatto nel rapporto con i detenuti. In questo senso anche la rivista Ristretti orizzonti è uno strumento di aiuto. Questi due aspetti, lavoro e riflessione, si sostengono reciprocamente.

Possiamo dire che c’è bisogno di qualcosa che viene prima del dare lavoro: il rapporto con chi sconta la pena. Come questo è possibile?
Una formula non esiste. Ci sono tanti fattori che entrano in gioco. C’è l’apporto della Chiesa, particolarmente sensibile; c’è il mondo imprenditoriale. Lo abbiamo sentito proprio a Padova. Quell’imprenditore che ha detto: «Sono contento di essere qua», o un altro che ha sottolineato: «Perché devo esportare il mio prodotto quando posso assemblarlo in Italia?». Poi c’è il volontariato, la magistratura di sorveglianza, la scuola. Nel 1976 proprio a Padova, come magistrato di sorveglianza, ho acconsentito a un progetto di scuola autogestita in carcere diretto dal professore universitario Lorenzo Contri, che oggi ha quasi 90 anni. Quante persone ha salvato insegnando, portando la sua faccia, il suo esempio in mezzo ai detenuti! È stato il primo germe.

Di questo hanno bisogno le nostre carceri?
Sì, ed è un bisogno enorme. Di una integrazione fatta di più fattori. È necessario un cammino di consapevolezza per far diventare la pena un momento costruttivo. Come aveva detto Giovanni Paolo II, con parole che Benedetto XVI ha ripreso nella sua visita a Rebibbia quasi un anno fa.

Si condanna la pena, non il peccatore, ha scritto sant’Agostino. È necessario un cambiamento, come ha accennato l’onorevole Luciano Violante durante l’incontro all’università di Padova dopo la visita al carcere. Un cambiamento del rapporto di pena e di colpa. Un problema culturale?
Esattamente. Penso che questo sia il primo movimento da fare: una riflessione attenta e non demagogica. C’è bisogno di un approccio filosofico-scientifico. È necessario sapere in quale direzione si vuole andare. Altrimenti si ha l’impressione di camminare, ma si gira intorno. La direzione devo studiarla prima di iniziare qualunque percorso. È l’idea che ha lanciato durante il convegno Pietro Calogero (procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia, ndr), ripresa dal rettore e dal ministro: il problema carcere è parte del problema giustizia. La pena, la sanzione risponde all’idea di giustizia, alla domanda di giustizia. Non è possibile, quindi, concepirlo al di fuori di un quadro che comprenda l’idea di giustizia.

Non a caso si è parlato dell’importanza dell’università come primo ambito culturale dove può aver luogo la riflessione.
È una componente essenziale. L’ultima rivoluzione per quanto riguarda la sanzione risale all’Illuminismo, quando alle torture e ai supplizi corporali si è sostituito il carcere. È stato prima di tutto un cambiamento culturale.

E oggi di quale cambiamento c’è bisogno?
C’è bisogno di un’altra riflessione che porti a dire che il carcere deve diventare extrema ratio, l’ultima possibilità. Allora la vera domanda è: se il carcere è l’extrema ratio, prima cosa si deve fare?