Giorgio Vittadini.

Vittadini: «Lo Stato sostenga chi crea occupazione»

Dopo il Meeting il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà mette in luce i nodi da sciogliere: educazione, lavoro e arroccamento della politica. E da dove ripartire
Carlo Dignola

Giorgio Vittadini è uno degli animatori del Meeting che si è chiuso ieri a Rimini. È il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

Cosa non funziona nell'Italia di oggi?
«La politica per lo sviluppo. Anzitutto gli investimenti in capitale umano. L'esempio più clamoroso è il recente provvedimento che nella scuola ha portato all'assunzione di 53 mila precari: fa fuori la possibilità per molti giovani di entrare in questo campo nei prossimi anni e uccide la qualità dell'istruzione».

Meglio i precari?
«Il lavoro flessibile non dovrebbe essere precariato, e in una visione davvero liberale lo si dovrebbe pagare molto di più. Invece va avanti questo statalismo costoso e inefficiente. Sotto, c'è ancora l'idea che debba essere lo Stato a organizzare tutto, gestire tutti i soldi, con alte tasse e spesa pubblica sempre crescente. E ora che lo Stato di soldi non ne ha più, in extremis si fa il tentativo disperato di ridurre la spesa».

Invece di contenere le spese, mi pare che si stia aumentando l'Iva. Ieri qui a Rimini Tremonti non sembrava molto contento.
«Lo Stato dovrebbe chiedere meno soldi ai cittadini, spenderne meno e sostenere e incentivare di più, invece, chi è capace di creare occupazione, sviluppo, investimenti».

Ma le tasse oggi vanno tagliate o aumentate?
«Bisogna tagliarle alle imprese che esportano, investono, creano occupazione. Alle altre no. Bisogna dare a chi permette ad altri di fare sviluppo. Questo oggi potrebbe anche voler dire mettersi contro il proprio elettorato, e rischiare di non essere rieletti: cambiare qualcosa però. Oggi bisogna avere il coraggio di fare ciò che è giusto».

Questo governo di destra non ha fatto politiche davvero liberali.
«Il problema vero non è destra o sinistra ma il bipolarismo della Seconda repubblica, difeso anche dagli intellettuali che adesso si stracciano le vesti contro la Casta dei politici. Se - come è stato fatto in questi anni crei dei partiti che si autolegittimano e scelgono loro i rappresentanti della gente, un vero rapporto di sussidiarietà tra Stato e società civile diventa impossibile. I partiti, evidentemente, si devono perpetuare e finiscono quindi per legarsi a gruppi di potere o di interesse di cui devono poi difendere i privilegi. Vent'anni fa i partiti, dalla Dc al Pci, erano espressione di realtà popolari: questo è stato reso impossibile facendo fuori il sistema delle preferenze».

Dovremo cambiare di nuovo il sistema elettorale?
«O almeno fare le primarie nei partiti: non si può dare ai capi delle coalizioni il potere assoluto di scegliere il personale politico. Altrimenti, a destra come a sinistra, sceglieranno della gente pronta a obbedire al capo, e non le leve migliori».

Chi pagherà davvero questa crisi?
«I giovani. In università per loro non ci sono possibilità, devono emigrare; nel mercato del lavoro abbiamo una delle più alte disoccupazioni giovanili d`Europa. Non fare una riforma delle pensioni vuol dire che i ragazzi di oggi, domani non le avranno. Questo è un Paese per vecchi, in cui gli inclusi vogliono far fuori gli esclusi. E i gruppi imprenditoriali, sindacali e politici, dato che gli inclusi hanno una forza organizzata, preferiscono non porre neppure il problema di chi sta fuori. Si sta penalizzando un'intera generazione rendendola inattiva proprio negli anni in cui potrebbe rilanciare lo sviluppo. Buttiamo via le energie più fresche del Paese».

Da cosa si riparte?
«Dalle esperienze ideali, perché questo arroccamento della politica nasce dal fatto che nessuno educa più all'ideale. E noi stessi cattolici non ci educhiamo a una fede che - come ci ha raccomandato qui a Rimini il presidente della Repubblica Napolitano - dia una certezza capace di fondare un impegno nelle opere sociali, una speranza da porre a servizio del bene comune».
(da L'Eco di Bergamo, 28 agosto 2011)