Immigrati a Mineo, in Sicilia.

MINEO Una fraternité più efficace delle bombe

Dalla provincia di Catania, immagini di una realtà che si fa sempre più dura. La gente sembra accogliente con gli immigrati, ma la situazione è al collasso. Eppure, in ogni crisi, c'è un'occasione (Da "La Sicilia" del 31 marzo 2011)
Mario Tamburino

La salita di Mineo la percorrono in fila indiana. Talvolta la fila si snoda per gruppi di dieci-quindici persone, tal’altra il numero si assottiglia. Per trovarsi a quel punto devono essere partiti più di due ore prima, mentre sono le dieci del mattino. Il passo è leggero per chi ha nelle tasche la disperazione e negli occhi la speranza nutrita di sogni e di show televisivi.
L’incontro tra clandestini del centro di accoglienza Residence degli Aranci e gli abitanti del paese che ha dato i natali a Capuana e Bonaviri, ha inizialmente i tratti di una cauta disponibilità. La signora che gestisce il negozio di elettrodomestici si premura di far intendere al giovane tunisino davanti alla vetrina che se vuole entrare può farlo liberamente. Stretta di mano, anche per me. «Ciau amigo», «Salam» è la risposta.
Ma man mano che passano le ore il numero dei giovanotti dai tratti somatici inconfondibilmente maghrebini intenti a girovagare per le stradine e i vicoli, aumenta. Il loro muoversi a gruppi rende impossibile ogni contatto personale e ben presto la prudenza si trasforma in diffidenza. Scendono le ombre della sera, negli immigrati il pensiero di un lungo cammino verso il luogo che li ospita cerca la scorciatoia della soverchieria. Un nugolo di tunisini decide di imporre la propria presenza su un autobus diretto a Catania e lancia persino qualche gesto di sfida alle guardie municipali accorse per ripristinare l’ordine. La diffidenza rischia di divenire sospetto e paura.
Mineo sa bene cos’è l’emigrazione, di quali lacrime e di quale dolore si alimenti la vita di chi è costretto a lasciare la propria terra. Non c’è famiglia che, in qualche suo membro, sia sfuggita a questa sorte. Anche alla "zia Giovanna", così mi raccontava mia madre quando ero piccolo, era capitato di solcare l’oceano con in braccio il figlio di tre anni per raggiungere il marito partito per l’America nel 1903. Era salita sulla nave a Messina, all’insaputa di quest’ultimo, con in tasca solo un biglietto con la destinazione finale: Boston Mass. A Boston, sotto la neve, sbarcò la sera di capodanno del 1905.
Per fortuna, o per grazia concessa per intercessione di Sant’Agrippina, nella sala d’attesa dove si sistemò col bambino fu riconosciuta da un compaesano che si offrì prontamente di accompagnarla da "compare Turi", impegnato a giocare a carte in una "società" punto di ritrovo degli immigrati italiani. "Donna Giovanna", che nel Nuovo Mondo aveva portato tutto il corredo di valori e di atteggiamenti determinati, forse, più dalla dominazione araba in Sicilia che dalle tradizioni del Vecchio Continente, declinò cortesemente l’invito. Tutt’altro che offeso il menenino corse ad avvisare l’ignaro consorte della presenza sul molo della moglie. Nel timore di una colossale burla "compare Turi" acconsentì di malumore a seguire l’amico e si convinse solo, dopo avere strabuzzato più volte gli occhi, alla vista di moglie e figlio in carne ed ossa.
Sarà la morte di quel bimbo, quindici anni dopo, a fare apparire probabilmente vano ogni sacrificio e a convincere l’uomo a ritornare in patria. Era il 1921. «Quindici anni che mi parvero quindici giorni», soleva dire la zia a conclusione del racconto dei mille particolari di quell’esperienza americana. Sarà stato la testimonianza di quella donna coraggiosa e risoluta a far sì che mia madre, giovane sposa, nel 1960, convincesse mio papà che, nonostante la neve, in terra svizzera potevano restarci almeno dieci anni. La nostra famiglia farà definitivamente ritorno a Mineo nel 1977.
Le facce di questi giovani tunisini che fuggono dalla miseria sono le stesse dei miei alunni marocchini e tunisini che io, figlio di emigranti, mi ritrovo in classe. Abbiamo il dovere di aiutarli e desideriamo farlo, ma i numeri sono importanti, l’ordine è decisivo e il rispetto delle regole dell’ospitalità non deve avere bisogno di essere imposto dall’atteggiamento intransigente del gendarme. A noi basta un’occhiata.
C’è un punto di rottura passato il quale, la disponibilità all’accoglienza rischia di divenire sospettosa chiusura. Non dobbiamo superare quel limite. È necessario diluire la concentrazione di persone a Lampedusa come a Mineo. Ma in ogni crisi c'è anche un’occasione. L’emergenza innanzi alla quale ci troviamo costituisce una grande occasione per l’Italia e per l’Europa. L’occasione di una condivisione in cui sia possibile vedere l’unità del Paese nei fatti
incontestabili e non nella retorica strumentale agli interessi di partito. La possibilità per l’Europa di mostrare che la solidarietà nei confronti della persona concreta è la strada di una credibilità incomparabilmente più efficace dell’umanitarismo delle bombe. Oggi bisogna coniugare liberté e fraternité.