Pisoni (a destra) durante la prima serata.

MEETING CAIRO Curiosi come bambini, davanti a ciò che ci rende uomini

Nel suo intervento, don Ambrogio Pisoni affronta ciò che permette il dialogo. Come sperimenta, in questi giorni, chi partecipa alla kermesse: «Siamo qui perché la Bellezza si è fatta carne». Ecco le sue parole

La bellezza: uno spazio per il dialogo tra culture
Intervento di don Ambrogio Pisoni al Meeting del Cairo (Opera House, 29 ottobre 2010)

Il nostro incontro, oggi, ha il sapore delle cose nuove, delle cose mai viste prima. È la curiosità per questa novità che ci raduna qui oggi: curiosi come dei bambini che non si accontentano di quello che hanno già visto e che, perciò, continuano ad attendere e a cercare una novità di cui non possono fare a meno.
Da dove nasce questo avvenimento che ci vede oggi protagonisti? Da un incontro imprevisto e non prevedibile: come ogni incontro nella nostra storia di uomini che vivono il dramma della loro esistenza senza averlo deciso personalmente. L’incontro, dieci anni fa, con il professor Wael Farouq: l’inizio di una storia piena di sorprese, di cui quella di oggi è la più clamorosa. Fino ad oggi. Il professor Farouq è un uomo curioso e questo è un fatto molto importante: la curiosità infatti è la caratteristica decisiva dell’intelligenza umana. L’uomo curioso non è vittima della presunzione, l’unico temibile nemico della verità. L’uomo curioso ha sete, conosce quella inquietudine di cui Agostino parla nel suo capolavoro Le Confessioni: l’instancabile passo che troverà riposo solo in Dio stesso. Per questo l’uomo curioso non trattiene per sé la sorpresa dell’incontro: egli desidera comunicarla a chi gli è vicino, a chi ama. Il destino della sorpresa è di essere comunicata: è per il mondo. Così è accaduto: da quel momento di dieci anni fa, i passi di una sorpresa crescente che è nata e rinasce continuamente in ogni tappa, allargando lo spazio della ragione e donando certezza alla speranza.
Che cosa è successo e cosa sta accadendo oggi? Noi siamo qui oggi perché siamo uomini feriti, toccati, commossi da una bellezza. Arrivando al Meeting di Rimini qualche anno fa per la prima volta, il professor Farouq rimase colpito da questo fatto: una strana bellezza che non lasciava tranquilli, un ordine cercato e riconosciuto, una passione per il tutto e per il particolare, un’apertura senza confini e pregiudizi. Non ha potuto rimanere indifferente. La bellezza infatti si comunica come un fascino inquietante: ci strappa dalla nostra comodità e chiede di essere riconosciuta. Occorre cedere ad essa: come quando ci si innamora. Di questo infatti si tratta: di cedere, di lasciarsi cambiare da qualcosa che accade, di permettere alla nostra vita di essere sconvolta dall’imprevisto. Perché questo? La risposta è semplice e disarmante: perché ogni uomo è stato creato per essere affascinato dalla bellezza, dall’avvenimento in cui la Verità si affaccia alla soglia della nostra esistenza.
L’uomo grazie al quale Dio ha cominciato a cambiare la nostra vita qualche anno fa si chiama Luigi Giussani. Un sacerdote cattolico nato in Italia, vicino a Milano, e tornato a Dio cinque anni fa. Senza di lui il Meeting di Rimini non sarebbe mai nato. Da lui abbiamo incominciato ad imparare la bellezza della vita e la sua dignità radicate nell’esperienza della tradizione del cristianesimo cattolico. In uno dei suoi libri, Giussani scrive: «In ogni cosa si affaccia una bellezza che investe tutto il mondo e che ha come suo termine focale il nostro cuore. Il nostro cuore vive per una bellezza che è dentro le cose, dentro la realtà. Una bellezza che la Bibbia chiama, con un termine più vivace e più drammatico, promessa» (Realtà e giovinezza. La sfida, p. 44).
La parola cuore è una parola decisiva nella storia della nostra cultura occidentale che ritrova le proprie radici nella tradizione biblica, ebraica e cristiana, come ci è stato testimoniato nell’incontro precedente. A questo proposito, nello stesso testo, Giussani racconta un episodio che egli ricorda come «uno dei momenti forse più impressionanti della mia fanciullezza». Una mattina di primavera, il cielo sereno, una sola stella che ancora brilla. Il piccolo Luigi che guarda quello spettacolo: lo sguardo ed il cuore affascinati. Improvvisamente sua madre, che gli cammina al fianco, esclama: «Come è bello il mondo e come è grande Dio!». «“Come è bello il mondo” vuol dire: “Non è inutile vivere, non è inutile fare, lavorare, soffrire; non è negativo morire, perché c’è un destino”. “Come è grande Dio!”: il grande è ciò a cui tutto fluisce, il Destino».
Giussani sottolinea: «Questo è il cuore: il rapporto tra la realtà come bellezza e Dio come Destino. Questi due punti sono come due fuochi, due poli, tra i quali scatta la scintilla: questa scintilla è il cuore». Ecco descritto il dramma, cioè il rapporto tra l’uomo e il suo significato: la vita è attesa profonda di un avvenimento in cui il destino si faccia incontro a noi, sorprendendoci e rallegrandoci e permettendoci di scoprire che la radice del nostro essere è attesa di ciò per cui siamo fatti.
Un grande scrittore italiano del Novecento, Cesare Pavese, ha scritto nella sua opera più famosa, Il mestiere di vivere: «Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?».
La parola destino ha qui un significato preciso: «Ciò per cui siamo fatti». In altri termini: la verità della nostra vita, la verità dell’essere.
Realtà e destino, realtà e Dio, bellezza e verità: non possiamo sfuggire da questa provocazione. La parola bellezza non sopporta di essere guardata e trattata in modo superficiale. Non saremmo qui oggi, non avremmo fatto la fatica di costruire questo evento se la parola bellezza non avesse il significato che porta: splendore della verità, secondo la famosa definizione di san Tommaso d’Aquino: «Pulchrum splendor veri» (Scriptum super sententiis, I).
Parlare di bellezza significa parlare della profondità della nostra vita, della sete del suo significato, della ferita che essa provoca nel nostro cuore in attesa, dell’energia nuova che essa semina nella terra della nostra ragione e della nostra capacità di amare.
Come infatti ciascuno di noi riconosce la verità di sé? Don Giussani ce l’ha ricordato: «L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza di bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che esso suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale, non totale quantitativamente, totale qualitativamente» (Certi di alcune grandi cose, p. 219).
È una esperienza semplicissima: stiamo parlando di bellezza, di attrazione, perciò di gusto, di piacere non superficiale, di qualcosa che accade e che va ad incontrare una attesa che coincide con la profondità del mio io e che quindi non posso far tacere. Non posso disporre del mio cuore secondo la mia volontà volubile.
L’incontro con la bellezza mi fa accorgere che io sono fatto per questo incontro col Mistero, col Dio che mi ha creato senza chiedermi il permesso e che mi dona la realtà come luogo di questo incontro. Parlare del cuore significa riconoscere la radice dell’io come un avvenimento che precede ogni determinazione storica, culturale, sociale e religiosa nel senso della religione che gode di una forma riconoscibile anche nel suo profilo istituzionale.
L’esperienza della bellezza scopre la radice dell’io che è comune ad ogni uomo: il cuore fatto per quello stupore che, solo, introduce alla Verità. La Bellezza infatti è la Verità in quanto affascinante.
Questo ci permette di parlare della bellezza come di un luogo di incontro tra culture: cioè tra uomini che hanno un nome ed un volto e che sono mossi dalla ferita di questa bellezza stessa. Feriti significa avere occhi e bocca spalancati, pronti ad ascoltare, a guardare, a ricevere. Pronti ad affezionarsi.
Giussani spiega così il significato di questo affezionarsi: «L’essere commosso è per aderire... ti fa uscire da te» (Certi di alcune grandi cose, p. 221).
Aderire a quello che c’è ed è fuori di me, che non ho fatto io, che è altro e che mi attira. La realtà è segnata dalla bellezza che mi attira per essere conosciuta. Giussani distingue tre effetti di questo fenomeno di affezione alla realtà: «Il primo... è che uno è stupito di ciò che è, perché non è lui! Il secondo è quello di far emergere una dignità inimmaginata, perché la mia dignità è ciò a cui sono affezionato. E, terzo, è in questa affezione che si stabilisce una consistenza al di là degli stati d’animo o delle reazioni... La libertà è consistenza e la consistenza è l’affezione a ciò che si è intravisto, anche per un solo istante, come proprio destino, perché ci ha parlato con un accento che nessuno ha, che nessun altro ha» (Certi di alcune grandi cose, p. 221).
L’avvenimento di oggi è perciò una sfida ed una possibilità, una opportunità per ciascuno di noi: per ognuno di noi. È in gioco la nostra umanità. Non abbiamo preparato questo gesto per poterlo inserire nell’elenco degli eventi culturali che affollano, grazie a Dio, la vita di questa meravigliosa città. Siamo qui perché stiamo obbedendo a quello che ci sta accadendo e perciò muovendo: cioè al logos che chiede di essere conosciuto in un dia-logos.
Un dialogo che è tra uomini appassionati della verità della propria vita e certi che essa possa essere vissuta con gusto. Per questo abbiamo cercato spazio e tempo. La verità cerca la ragione dell’uomo, cerca la sua libertà, la sua carne ed il suo sangue. La verità crea le forme della bellezza per farsi desiderare ed incontrare e perciò riconoscere e finalmente conoscere. Nell’unico luogo che ci è dato per vivere l’irrepetibile avventura dell’esistenza: la realtà.
Siamo qui perché non vogliamo perdere questa occasione per diventare più uomini nell’avventura di questo incontro, impensabile solo fino ad alcuni mesi fa. Siamo qui perché Giussani ci ha testimoniato ed insegnato che «è disumanità il non vivere questo stupore, questa gratitudine, il non lasciarsi afferrare da questo senso della bellezza, da questa bellezza» (Certi di alcune grandi cose, p. 222). Siamo qui perché la Bellezza si è fatta carne e ci ha posto questa domanda: «Che cosa state cercando?» (Gv 1, 38).
Non possiamo fuggire la semplice imponenza di questa domanda. Accettarla significa cominciare l’avventura di una vera amicizia. È la nostra ragionevole speranza.