Hakan Yavuz.

«I turchi vogliono un Paese dove si possa essere uomini»

L'autoritarismo di Erdogan. La questione islamica. E un'economia che "tira", ma non basta. Perché non lascia spazio alle persone. Così Hakan Yavuz, politologo di Istanbul trapiantato negli Usa, legge le proteste di questi giorni
Luca Fiore

Hakan Yavuz è nato a Istanbul ma vive a Salt Lake City. È professore di Scienze politiche all’Università dello Utah. È a Milano in questi giorni per intervenire all’incontro del Comitato scientifico della Fondazione Oasis, presieduto dal cardinale Angelo Scola. Mesi fa, quando fu invitato, la Turchia non era sotto i riflettori del mondo. Oggi il primo ministro Erdogan minaccia di mandare l’esercito per placare le proteste che da giorni infiammano le piazze del Paese. Yavuz è preoccupato che la violenza prenda il sopravvento, ma in fondo, pensa che questo fermento porterà del bene al suo Paese. Anche perché qualcosa di veramente nuovo sta accadendo.

Professore, cos’è successo a piazza Taksim?
Tutto è iniziato come una protesta ambientalista, ma ora siamo di fronte a un ampio movimento di protesta sociale. È un movimento spontaneo, non ha leader e alle spalle non ha un’organizzazione. Le manifestazioni non sono più solo ad Istanbul, ma si sono estese al resto del Paese. La questione ambientalista è diventata un’opportunità per esprimere uno scontento generale che si era accumulato nella società.

Chi scende in piazza?
Persone diverse, con ideologie e appartenenze diverse. L’obiettivo comune è il primo ministro Recep Erdogan. La gente è scontenta del modo in cui sta governando il Paese, ha la sensazione che stia diventando sempre più autoritario.

E il primo ministro sta usando il pugno di ferro.
Erdogan è ancora fiducioso, perché sa di avere il sostegno del 50 per cento della popolazione. Sa che l’economia turca va meglio che in molti Paesi europei. È convinto di avere ancora la legittimità politica per forzare la società e imporre i valori islamici al resto della popolazione che non li condivide: limitare i luoghi dove si può consumare alcool, la possibilità di costruire moschee in determinati luoghi, inimicarsi la minoranza alevita (una versione dell’islam locale, ndr). La gente reagisce al suo stile autoritario. Ma non c’è solo questo.

Cioè?
I giovani non scendono in piazza per la mancanza di cibo o di lavoro, ma perché voglio qualcosa di più che la costruzione di grandi palazzi, grandi strade e nuove industrie. È vero, la Turchia sta crescendo economicamente, ma in molti pensano che il materialismo sia necessario ma non sufficiente per essere uomini. Occorre poter vivere come ciascuno desidera: si chiede che lo Stato garantisca il modo in cui ognuno liberamente decide di vivere, anche se è un modo che potremmo definire “diverso”.

Dunque il problema non è tanto l’islamizzazione della società.
La questione è la critica della democrazia, non della democrazia in sé, ma del modo in cui la intende Erdogan: vogliono una democrazia liberale, non una democrazia autoritaria. Criticano il tipo di capitalismo che si è imposto in Turchia, un capitalismo per il quale importa solo la crescita, che non lascia spazio a obiezioni da parte della gente. Per me queste proteste hanno a che fare con la concezione della democrazia e del capitalismo.

Che differenza c’è tra queste proteste e quelle che abbiamo visto in Tunisia e in Egitto?
Innanzitutto in Turchia abbiamo un sistema democratico, mentre in Tunisia e in Egitto la democrazia non c’era. Al Cairo e a Tunisi le proteste erano maggioritarie. Qui la questione sono i diritti delle minoranze, il diritto di esistere degli stili di vita delle minoranze. Non si scende in piazza per protestare contro il tasso di disoccupazione, ma si discute sulla definizione di “vita buona”. Penso che i giovani che partecipano alle dimostrazioni, che appartengono alle famiglie della classe media, vogliono qualcosa di più che il posto di lavoro o il pane: vogliono alberi, vogliono uccelli… Vogliono che l’ambiente sia protetto… Sono richieste molto differenti.

Quando pensiamo al capitalismo, pensiamo alle società occidentali. Quando pensiamo all’islamismo pensiamo a un modo di pensare che è contrario allo stile di vita occidentale…
No, questo non è un conflitto tra secolarismo e islamismo. In piazza ci sono anche gruppi musulmani, i socialisti islamici ad esempio. Quel che sta accadendo è qualcosa di inedito. Non è una protesta contro l’Occidente, i giovani in piazza sono molto influenzati dall’Occidente nel loro modo di pensare. Usano Facebook e Twitter, tanto che il primo ministro ha detto che i social media sono una grossa minaccia per la società. Sono molto creativi sul piano del linguaggio e dello humour e fanno impazzire il potere che non li riesce a controllare. E questo è qualcosa di veramente nuovo in Turchia. Questi giovani sono post-islamisti e post-secolaristi. Le vecchie categorie non riescono più a spiegare la politica e la società turca. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti interpretativi per capire quello che sta accadendo. È molto più complesso. Io trovo che sia tutto salutare: è un’occasione per la società. Spero che Erdogan impari la lezione, ma non penso che avverrà presto. Le dimostrazioni andranno avanti.