Sfollati ad Haiti (© Fabio Cuttica/Contrasto per Avsi).

HAITI «Sporcandoci le mani fiorisce la nostra povera umanità»

La testimonianza di un chirurgo, sull'isola per Avsi. Negli ambulatori improvvisati il lavoro è costante: le medicazioni, le visite, le ricognizioni... E l'incontro con un padre che nel dolore continua ad amare
Alberto Reggiori

Io, medico chirurgo, e Chiara Mezzalira, pediatra, siamo il piccolo team che Avsi ha inviato ad Haiti per far fronte all’emergenza medica e, soprattutto, verificare cosa fare a medio termine nel campo socio-sanitario-nutrizionale. Sull’isola ci aspettavano altri tre staff di Avsi.
Atterrati con un volo Onu nella base militare americana in cui è stato trasformato l’aeroporto di Port-au-Prince, siamo prelevati da Fiammetta, responsabile Avsi, e partiamo subito: le case in muratura della città che attraversiamo non sono più agibili, vediamo costruzioni crollate, tetti obliqui, balconi scesi direttamente dal terzo piano sulla strada. Siamo subito portati a vedere la bidonville dove Avsi è presente da oltre tre anni, chiamata Cité Soleil. Qui sono affluite migliaia di persone scappate dalle case e dalle baracche semicrollate: vivono su una piazza che si è trasformata in un’immensa casa a cielo aperto, divisa da stracci e tendoni che sbattono ad un vento fastidioso.
Ovunque bambini nudi, donne e uomini dormono sui cartoni e sulle stuoie, qualcuno porta l’acqua presa alla pompa vicina, altri cucinano su fornelli improvvisati. Possiamo entrare in questa tendopoli solo perché i ragazzi dell’Avsi sono conosciuti ed aiutano questa gente da ben prima del terremoto, altrimenti non sarebbe consigliabile: c’è una dose di rabbia ben visibile. Decidiamo che qua sarà realizzato un progetto sanitario composto da quattro ambulatori semipermanenti, in cui affluiranno soprattutto le cosiddette categorie vulnerabili: bambini e donne gravide ed in allattamento. Nel rapido giro svolto abbiamo notato una severa diffusione di malnutrizione ed un numero impressionate di bambini malati.
I giorni passati qui a Port-au-Prince volano, si è sorpresi dal veloce tramonto caraibico ed è subito sera. La giornata di noi volontari Avsi è sempre aperta dalla messa alle 6.30, c’è un ritmo monastico che non permette spreco di tempo. Quattro parole e scambi d’informazioni con i volontari delle altre ong (organizzazioni non governative) italiane che sono alloggiate come noi nell’oasi verde degli scalabriniani. Padre Bepi, il responsabile, è in questa isola da oltre 30 anni; è come il papà di tutti, si chiede sempre un consiglio a lui.
Poi si parte per la giornata impegnativa. Ci siamo abituati subito a viaggiare sul pianale scoperto dei pick-up, alla polvere di cemento che avvolge tutto, al traffico-marmellata di questa disperata città, all’imprevisto che è sempre in agguato. Un po’ meno alla città distrutta ed alla sofferenza degli haitiani. Siamo partiti dall’Italia per venire qui e vedere di cosa ci fosse bisogno e l’abbiamo capito subito: di tutto. Così abbiamo immediatamente deciso il progetto da realizzare in urgenza: un ambulatorio nella tendopoli dantesca di Cité Soleil. Ma le richieste di estendere la protezione sanitaria sono venute anche dagli altri settori di questa cittadella di disgraziati e così gli ambulatori sono diventati quattro, volendo coprire una popolazione più ampia, di circa 8mila persone. Io e la pediatra Chiara sentiamo immediatamente che qui non possiamo non essere completamente a disposizione di queste persone e dei loro bisogni. Sarebbe semplicemente raccapricciante essere qui ad Haiti sprecando un’ora sola di tempo. Così decidiamo che scriveremo il progetto alla sera, mentre di giorno visitiamo decine e decine di persone affluite agli ambulatori degli scalabriniani, medichiamo ferite, distribuiamo alimentari ed acqua, accompagniamo le folkloristiche suore sudamericane (con mucha alegria!) nei quartieri più poveri dove abbiamo improvvisato ambulatori che farebbero inorridire qualsiasi direttore sanitario ma sono di un’efficacia incredibile.
Nella chiesa dei francescani Reina de la Paz, trasformata in ambulatorio, dopo tre giorni di visite sono aumentati, oltre i pazienti, anche i medici: io sono stato affiancato da tre dottori messicani della Caritas, giunti con gli zaini zeppi di farmaci e di buona volontà. Ognuno di noi ha occupato un angolo dell’edifico, la chirurga messicana visita nel confessionale, abbastanza ampio da ospitare un lettino: non so se dia, oltre ai farmaci, anche l’assoluzione, comunque la gente esce molto serena dalle sue consulenze.
Tra le persone visitate, ho incontrato un giovane uomo che teneva tra le braccia due gemelline di circa due anni, dai nomi molto fantasiosi, Ketty e Kate. Mi ha molto colpito la sua tenerezza verso di loro, per fortuna erano affette semplicemente da bronchite. Gli ho chiesto se avesse altri figli. «Sì - mi ha risposto in creolo -: le due figlie più grandi e mia moglie. Sono tutte morte nel crollo della casa». Non una lacrima, aveva una compostezza ed una forza da lasciarmi a bocca aperta. Alla fine gli ho dato i farmaci per le gemelle, il cibo e l’acqua. Si è alzato prendendo a fatica le bambine in braccio, con le dita rimaste libere trasportava il resto, mi ha salutato gentilmente e si è allontanato. L’ho osservato sbalordito mentre usciva. Che tristezza! Per certe persone la vita è veramente dura. Un pensiero fugace mi ha illuminato qualche parte del cervello: tutto questo è umanamente sopportabile solo perché un uomo ha detto: «Beati i poveri di spirito, beati voi che ora piangete, beati voi che avete fame e sete, perché vostro è il regno dei cieli...». Questo padre, amando così intensamente le sue gemelline, me ne ha dato una grande testimonianza. Grazie, amico, mi hai insegnato qualcosa. Ti giuro che pregherò per te e per Kate e Ketty.
Qui ad Haiti, questo pezzo d’Africa misteriosamente trapiantato ai Caraibi dalle vicende complicate della storia umana, ho incontrato molta fede. Semplice, popolare, spesso mischiata alla magia vudù che tanto appassiona i giornalisti e che tanto paralizza le volontà e la libertà di questa gente. Dipinta sui muri e sui camioncini, ma sempre fede. Mi raccontano che nei giorni dopo il terremoto la gente non sapeva chi fosse vivo e chi morto: incontrando un amico o un parente, ci si abbracciava gridando in creolo: «Nou toujou vivan, messì Bondieu!». Grazie a Dio siamo ancora vivi!
Alla sera, osservando la splendida luna dei Caraibi e le pallide stelle che la circondano mi chiedo se non ci sia in fondo una sottile presunzione in tutto quello che facciamo... ma forse sono pensieri inutili. Non ci inganniamo certo nell’illusione di risolvere tutto, ma in tutto quello che facciamo possiamo affermare una speranza, una vita che vale, una bellezza sempre presente. La nostra povera umanità fiorisce solo così, sporcandoci le mani e con il cuore ferito. Per questo la presenza dei cristiani, religiosi o laici, è così importante, capillare, nascosta ed appassionata. Certo, serve anche l’esercito Usa, la portaerei Cavour, la Croce Rossa, l’Onu e le ong, anche le più sprovvedute, ma il ruolo sociale ed umano della Chiesa, ve lo posso assicurare, è insostituibile. Diciamolo pure, è una missione. Non siamo tiepidi, per favore.