Via Padova, nella zona est di Milano, dopo gli <br> scontri tra immigrati e polizia.

MILANO «Qui non è l'inferno: c'è una storia che non si ferma mai»

Un delitto e scoppia la guerriglia urbana. Breve viaggio in via Padova dopo gli scontri dei giorni scorsi. Tra paura e bande straniere, un parroco ci racconta la vita nella "kasbah" milanese. Sorretto dalla «vera giustizia» che tutti cercano
Maria Acqua Simi

La prima cosa che vedi in via Padova sono vetri di bottiglia rotti, ovunque. E poi rivoli di birra e piscio che dal marciapiede colano fin sulla strada. Gli autobus arrancano stracarichi di gente, i negozi rivelano una realtà complessa: il Japan Food e il kebab, il caffè gestito da sudamericani e la macelleria islamica Awlad. Per strada latinos, egiziani, cinesi, peruviani. Italiani pochi.
Da qualche giorno, la polizia pattuglia la zona palmo a palmo. A Maria, portinaia meridionale di stanza in via Padova da una vita, sembra di vivere «in una prigione». Parlerebbe per ore. E si capisce che lo fa ad uso e consumo dei giornalisti. Che a decine, con flash e telecamere, si aggirano per il quartiere. Ma la verità è che qui, d’inferno, non si può proprio parlare. Lo spiega bene don Piero Cecchi, parroco di San Giovanni Crisostomo, l’unica chiesa della zona ad affacciarsi direttamente su via Padova.
«Non è l'inferno, non ci sono guerre tra etnie», spiega. «Quello che emerge dai fatti di questi giorni è un grande bisogno di giustizia, che va ascoltato ed interpretato. Sa cosa dice il Papa quando parla della giustizia? Ricorda un’espressione ebraica, sedaqah: significa, da una parte, accettazione piena della volontà di Dio; dall’altra, equità nei confronti del prossimo. Quindi del povero, dell’orfano, dello straniero. E i due significati sono legati, perché per l’israelita dare al povero è il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo».
Mentre don Piero parla, intorno a lui si affaccendano diverse persone. Stanno scaricando da un camion i pacchi del Banco Alimentare e preparandosi per la distribuzione alle famiglie bisognose. Che qui sono tante e di etnie diverse, ma con le stesse esigenze. «Per affrontare tutto questo sono necessarie legalità e preghiera. Una convivenza è possibile se ci sono delle norme e dei patti che permettono alle persone che hanno storie diverse e culture differenti di riconoscersi e di rispettarsi. Ma poi serve la preghiera per affrontare la sproporzione che sentiamo di fronte a problemi più grandi di noi. Non possiamo dimenticarci di quel Dio che si è compromesso con la nostra storia fino a dare la sua vita». Don Piero è di fretta, è tutto il giorno che lo cercano e adesso è l’ora del catechismo. Me la butta lì. «Scambi due parole con don Nicola, che si occupa dei ragazzi dell'oratorio».
Lo faccio. Ed è una fortuna. Perché don Nicola Porcellini, che della parrocchia è vicario, non spreca tanto fiato. Va dritto al sodo. Dice che i problemi più grandi sono la paura e la rabbia, «i due strumenti che il male usa per dividere e far vacillare l'uomo». E nel dirmelo mi racconta di Ahmad, un bambino egiziano di dodici anni che va al doposcuola. «Ieri stavamo finendo i compiti, quando mi guarda e mi dice: "Ho paura che la polizia mi venga a prendere". Di fronte a lui mi sono reso conto che non dovevo far finta di niente, cancellare con una pacca sulla spalla i suoi timori. Ma fargli compagnia. Così l'ho rassicurato, e poi abbiamo finito i compiti». Non nasconde le difficoltà, spiega che negli ultimi anni sono venute meno le figure dei mediatori culturali e che mancano anche i finanziamenti per l’“educativa di strada”, cioè per tutte le attività che accompagnano la crescita dei ragazzi.
Don Nicola racconta che, sempre ieri, alcuni ragazzi dei quartieri vicini che lo aiutano al doposcuola erano incerti se venire a dargli una mano coi bambini, per via dei fatti di questi giorni. Lui non ha intavolato gran discorsi, ha solo chiesto: «Ma ci lasciate qui da soli?». Due ore dopo erano lì tutti. «La questione è esserci. Poi ovvio, non risolvo io i loro problemi. Però mi carico delle loro paure certo di quella Presenza, Gesù, che è l'unica che può consolare. E che permette a me di muovermi così, ora».
Ricorda molto don Bosco, quando dice che c’è bisogno di una proposta educativa valida, di qualcosa per cui valga la pena muoversi. E questo si traduce nel dover scendere in strada a cercare i ragazzi o nell’organizzare un torneo di calcetto tra egiziani e sudamericani. «Non mi chieda chi ha vinto, non lo so. Ma è stato un bellissimo momento di amicizia». Perché all'oratorio di San Giovanni Crisostomo, lo sport è una disciplina che non serve solo a sgranchirsi le gambe. «Attraverso il calcio i ragazzi qui imparano l'ordine, le regole, il gioco di squadra». Imparano a stare insieme. Tutti: Maicol l'italiano, Mohamed e pure quelli “del gruppo della strada”, sedicenni nordafricani che la sfida di don Nicola ancora non l'hanno raccolta. «Però c'è stima, e da quella si può costruire». Per ripartire, chiediamo noi? «Non ci siamo mai fermati», sorride lui.