CROCIFISSO Una sentenza che dà ragione ai fatti

A grande maggioranza, la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo assolve l'Italia: la croce nelle scuole pubbliche non viola la libertà di educazione. Il costituzionalista Andrea Simoncini spiega perché è una decisione «realista»
Alessandra Stoppa

«È una sentenza estremamente importante: perché è pronunciata sui fatti, non sulle ideologie». Il costituzionalista Andrea Simoncini commenta a caldo per Tracce.it la sentenza con cui la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha “assolto” l’Italia sulla presenza del crocifisso nelle scuole. La battaglia a colpi di ricorsi era stata portata avanti da una famiglia di Abano Terme contro il Governo italiano. Il caso è arrivato a Strasburgo dopo essere passato per due volte al Tar del Veneto, alla Corte Costituzionale e al Consiglio di Stato (qui la ricostruzione della vicenda).
La motivazione dei due genitori “anti-crocifisso” era a grandi linee la seguente: «È una battaglia civile. Se io a casa insegno ai miei figli che l’uomo è figlio dell’evoluzione, e poi a scuola un professore sostiene invece che siamo tutti figli di Dio, quel crocifisso che sta alle sue spalle gli conferisce una autorità superiore alla mia».
La Grande Chambre gli ha dato torto. Con una sentenza definitiva, inappellabile. Un collegio di diciassette giudici ha, in sostanza, stabilito (a larghissima maggioranza: 15 a 2) che il crocifisso appeso in aula non viola l’art. 2 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei diritti dell’uomo, relativo al diritto all'istruzione: la croce, cioè, non lede la libertà di educazione. Così è stata ribaltata la sentenza di primo grado del 3 novembre 2009, con cui la Corte di Strasburgo aveva condannato il nostro Paese.

Perché è una sentenza “sui fatti”?
Perché l’approccio della sentenza, a una prima lettura, appare molto realista. Nel senso che la Grande Chambre ha chiamato le cose con il loro nome. Innanzitutto, afferma che la croce è un simbolo religioso. Questo è notevole, dal momento che uno degli argomenti usati da più governi nella “difesa” del crocifisso era proprio questo: non si tratta di un simbolo religioso, ma culturale. Invece, la Corte ribadisce che è «prima di tutto un simbolo religioso». Questo è un primo aspetto per cui la sentenza si basa sui fatti, su “come stanno le cose”.

La sentenza afferma che, pur essendo un simbolo religioso, non lede la libertà di educazione, perché non ci sono elementi che attestano «l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni».
Questo è un secondo fattore di realismo. Per la Corte è evidente che un crocifisso appeso al muro di un’aula non è in grado di indottrinare nessuno. Perché ci sia indottrinamento deve esserci un pensiero proposto contro la libertà, e non alla libertà. Dovrebbe esserci un’educazione imposta con violenza, con l’alterazione della libertà di coscienza.

Infatti la sentenza dice che lo Stato italiano non svolge «un’opera di indottrinamento» perché non prevede «l’insegnamento obbligatorio del cristianesimo» e perché «lo spazio scolastico è aperto ad altre religioni». Per cui non sussistono elementi a indicare che «le autorità siano intolleranti».
Ma, soprattutto, specifica che il crocifisso «è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose». Solo un insegnamento può realizzare la funzione educativa.

Ma questo non toglie che Massimo Albertin e Soile Lautsi, i due genitori che hanno portato l’Italia e il crocifisso di fronte ai giudici, si sentano ledere nella libertà di educazione dei figli Dataico e Sami, che all’inizio della vicenda, nel 2002, frequentavano la scuola media.
Qui si pone l’altro passaggio decisivo della sentenza. Giuridicamente fondamentale. La sentenza stabilisce che «la percezione soggettiva che mi è stato reso un diritto non basta ad affermare che quel diritto è stato leso». Affermando che la percezione personale «non è sufficiente», la Corte rigetta l’idea che qualsiasi sensazione, come qualsiasi desiderio, costituiscano di per sé un diritto o la violazione di un diritto. Soprattutto quando si parla di coscienza, educazione, libertà. Ma, in questa direzione, la Corte fa un’altra sottolineatura decisiva.

Quale?
Osserva che la presenza del crocifisso ha lasciato «intatto» il diritto della madre «in quanto genitrice di spiegare e consigliare i suoi figli, di orientarli verso una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche». Questo significa affermare che l’educazione non può mai essere delegata a una struttura: in qualsiasi ambiente un ragazzo si trovi, la sua educazione è rimandata innanzitutto alla responsabilità della famiglia, dei genitori.

La sentenza d’assoluzione ha trovato una maggioranza molto ampia: quindici giudici su diciassette.
Questo è un ulteriore elemento, molto significativo. Indipendentemente dalla brutta abitudine di prendere per definitive sentenze che definitive non sono, la Grande Chambre ha espresso un orientamento molto forte. Considerando, soprattutto, che nel collegio erano rappresentati Paesi come Francia, Grecia, Regno Unito, Danimarca, Finlandia, Svizzera, Russia…

Ma non lascia interdetti che sia stata completamente ribaltata la sentenza di primo grado della Corte di Strasburgo?
Si resta perplessi perché si percepiscono i giudici come delle divinità. Invece sono uomini come tutti gli altri. Per cui, questi diciassette giudici hanno valutato la materia diversamente e in modo più ampio (la prima sentenza era stata emessa da sette giudici). Evidentemente ha giocato in loro l’insuperabile principio di Churchill: «Solo un imbecille, tra coerenza e verità, sceglie la coerenza». Ma, soprattutto, bisogna tenere presente che - in una materia come questa - è preponderante la discrezionalità della Costituzione del singolo Paese. La Corte Europea non ha ceduto alla tentazione di stabilire una nozione di religiosità uguale per tutti. L’Europa è un soggetto di pluralismo costituzionale, i vari Stati si comportano diversamente anche rispetto alla visibilità dei simboli: la Corte deve garantire che la materia venga regolata innanzitutto dai valori e dall’identità costituzionale di ciascun Paese. Questa sentenza, del resto, è l’esempio che quando l’Europa “fa presente” la sua cultura, il suo volto, anche le Corti non risultano più abbandonate negli uffici di Strasburgo ma sono chiamate a prendere una posizione forte. Che può contrapporsi a iniziative irrazionali e pregiudiziali. Ideologiche.