Francesca Paci.

Ecco dove muoiono i cristiani (e perché)

L'inviata de "La Stampa" Francesca Paci dedica un libro alle violenze contro i cristiani, discriminati «perché per loro la dignità di ognuno viene prima di tutto. Una vera rivoluzione». Non l'avrebbe mai scritto, se una volta, in un bar di Londra...
Paola Ronconi

Non aveva mai pensato ai “cristiani” come a una minoranza. Fino a quella volta in cui, seduta a un caffè londinese, ha conosciuto la storia di un uomo che si faceva portare la comunione di nascosto da un frate che entrava in casa dalla porta sul retro. Quell’uomo era Tony Blair. Il frate che entrava e usciva da Downing Street era padre Michael Seed. Proprio lì, nella patria del multiculturalismo avanzato (oggi, a dir la verità, un po’ in crisi) essere cattolico, per il Primo Ministro, era decisamente un problema. Francesca Paci, giornalista de La Stampa, si scopre a ripensare a molti dei volti incontrati in anni di lavoro come inviata, soprattutto fuori dall’Occidente.
Pensa a Lee, nordcoreano. Da piccolo vedeva i suoi genitori, all’apparenza bravi comunisti, chiudere in una giara tenuta sepolta in cortile il libretto di preghiere. Crescendo capì che il mondo non finiva in Corea e che la Corea non era il paradiso in terra come i leader del partito unico facevano (e fanno) credere. E che quel Gesù e quel mondo al di là del cielo appreso origliando i genitori dovevano esistere davvero. Conseguenze? «Ho visto uccidere mia madre, mio fratello, il mio primogenito è stato torturato...».
Lee, Martha, Samar, Fatima, Sophie sono solo alcuni di quei volti, diventati protagonisti di un libro, Dove muoiono i cristiani (Mondadori, 17,50 €). «Per un laico nato in Occidente, dove la Chiesa rappresenta un potere istituzionale spesso forte e invasivo, le minoranze e i discriminati per cui battersi sono altri: immigrati, rom, omosessuali», scrive la Paci nella introduzione. «Fino a qualche tempo fa nella mia personale lunga lista di diseredati da sostenere i cristiani non c’erano». Fino a quella colazione in un bar di Londra.

Iraq, Terra Santa, Egitto, Turchia, Indonesia, molti Stati africani. Ma anche Orissa, Corea del Nord, Amazzonia. E all’appello ne mancano ancora. Perché, secondo lei, i cristiani in quanto tali subiscono persecuzioni o discriminazioni in zone del mondo così diverse tra loro?
Mi sono fatta questa idea: il cristianesimo pone al centro la persona e la sua dignità. Ovunque ci sia una situazione in cui il singolo viene maltrattato, fino magari a essere ucciso, dove la sua dignità umana viene calpestata, io ho sempre trovato che quella persona trova rifugio sotto un campanile, in una parrocchia. Prendi un omosessuale: ci sono posti nel mondo dove vengono presi a sassate. La comunità cristiana è quasi sempre un porto sicuro. Poi dopo si discute: la Chiesa cosa dice degli omosessuali, delle donne che abortiscono perché violentate? Ma per il cristiano, la dignità di ognuno viene prima di tutto. Questa è una posizione rivoluzionaria. D’altronde il cristianesimo nasce come religione di “opposizione al potere”. Ed è proprio fuori dall’Occidente, in Paesi dove la dignità umana viene regolarmente negata, che il sacerdote, la famiglia cristiana o il semplice fedele recuperano quel potenziale rivoluzionario delle origini. Irriducibile al potere.

Un potenziale culturale, una statura di persona che agisce nella società e dà fastidio.
Prendiamo il caso dell’India: la popolazione è divisa in caste; alla base della piramide ci sono gli ultimi, i paria, quelli senza diritti. La costituzione garantisce loro un sussidio minimo, ma non possono frequentare le scuole degli altri, non possono ambire ai lavori degli altri. Che cosa trovano nella parrocchia? La possibilità di studiare, essere curati. Tutto insieme agli altri. Questo emancipa. Domani a 20 anni possono prendere un aereo, andare a studiare a Harvard o Cambridge e poi tornare e sovvertire l’ordine delle caste. L’accusa verso i cristiani è sempre il proselitismo, la Chiesa è accusata di un do ut des: io ti emancipo, ti do potere culturale, ti do una qualifica che la tua società non ti dà e tu ti converti. Ma tu immagina una persona che non ha mai avuto niente dalla vita, e può studiare senza che gli sia chiesto niente in cambio. Sarà colpita da un’umanità mai vista, si chiederà da dove viene questa diversità. E magari arriverà alla conversione. Ma il processo non è quello dell’evangelizzazione in punta di spada dei conquistadores.

Nel libro racconti anche di Paesi dove i cristiani non sono una minoranza. Penso al Sudamerica.
Se uno va in Amazzonia, ci sono zone che funzionano come riduzioni feudali: la gente appartiene alla terra, viene venduta con la terra. Dove trovano rifugio questi se non nella parrocchia? In Colombia, quando arrivano i paramilitari o i trafficanti, magari con la croce al collo, a difendere gli ultimi è di nuovo il sacerdote. Noi spesso associamo l’odio per i cristiani con l’islam, soprattutto dopo l’11 settembre, ma la quantità di morti in Sudamerica è enorme.

Perché, nonostante tutto, molti rimangono lì dove la vita è così dura?
Il motivo è simile a quello dei primi cristiani: il martirio, cioè il sacrificio per amore della vita, un seme piantato che porterà frutto. Non per amore della morte, come i kamikaze. Tant’è vero che spesso, lungi dal diminuire, le conversioni aumentano, nonostante i rischi e le minacce.

Perché non se ne parla?
Ti faccio un esempio: a chi interessa un Paese come l’Orissa? Non c’è nessun interesse economico, politico a quei luoghi. La nostra colpa è non considerare che in tanti posti i cristiani sono trattati come ai tempi delle persecuzioni. E sono più perseguitati di altri in virtù delle qualità che noi, in Occidente, abbiamo assimilato.