Che cosa c'è in gioco

Certo, ci sono i numeri di Milano: i 7 punti di vantaggio di Pisapia, gli 80mila voti in meno della Moratti rispetto al 2006, le preferenze dimezzate a Berlusconi… E i numeri parlano. Raccontano di una tornata elettorale dove, più che vincere un centrosinistra diviso e disorganico attestato più o meno sulle percentuali precedenti (vedi anche Napoli, Bologna e non solo), ha perso un certo modo di proporsi agli elettori. Fatto di toni e contenuti sbagliati, visto che quasi sempre si è parlato - o urlato - d’altro: processi in corso, sentenze d’antan, governo nazionale... Ma comunque altro rispetto alle città, a ciò che si è fatto e si può fare amministrando. Così in queste settimane il rigetto per la politica è aumentato. Lo scetticismo e persino la rabbia sono cresciuti, come chi era impegnato a fare campagna elettorale nei mercati o nelle strade aveva potuto constatare di persona, alla faccia dei sondaggi e prima delle analisi attuali.

Eppure è proprio lì, in quelle strade e in quei mercati, che abbiamo visto succedere altri fatti. Reali, almeno quanto i numeri. E più significativi delle analisi. Decine di incontri e dialoghi che hanno avuto come protagonisti persone comuni: studenti, impiegati, madri di famiglia, operai. Non militanti della politica o “volantinari” a pagamento, ma gente che si è impegnata in campagna elettorale prendendo sul serio una proposta: verificare la propria fede. Vedere se l’esperienza cristiana tiene, e costruisce, anche di fronte all’occasione elettorale.

Ce n’è stata, di gente così in piazza. E ne ha incontrata altra. In gran parte disillusa, appunto. Alle prese con problemi e bisogni reali (il lavoro perduto, i figli, la malattia) che nessun talk show può nemmeno sfiorare. E che quella gente, invece, prendeva sul serio. Alcuni studenti, per dire, hanno iniziato a raccogliere nomi e numeri di telefono, a far girare richieste e curricula tra chi offre lavoro. Una specie di «pronto intervento» davanti al mare di necessità.

Uno di questi studenti ha raccontato un incontro che esemplifica molto. È accaduto in un mercato. Con una donna che, visto il volantino elettorale, ha iniziato a urlare tutta la sua rabbia verso i politici. «Ci siamo messi a parlare. Dopo un po’ le ho chiesto: va bene signora, ma il problema vero qual è?». Lì è iniziato un dialogo. «Mi ha raccontato dei figli che hanno perso il lavoro. E in me è successo qualcosa: mi sono sorpreso a volere un bene imprevisto a questa donna. Una gratuità, una vibrazione di fronte all’altro, che desidero per me. È la verifica della fede. Perché accade solo per l’incontro che ho fatto con Cristo. Mi sono scoperto a dirle: signora, farei di tutto per lei. Ci siamo scambiati i numeri, abbiamo fissato un appuntamento per i figli». E lei? «È cambiata. Mi ha abbracciato. Si è messa a piangere: “Nessuno vuole darmi una mano”…». Dialogo analogo a un altro, con una disoccupata, chiuso con un «sono vent’anni che non andavo a votare perché ho perso la fiducia, ma stavolta mi sa che torno». Ad un altro ancora, con un portinaio che alla fine di un aperitivo organizzato nel condominio, dice «ho bisogno di momenti così». E a tanti altri episodi del genere: assemblee pubbliche e dialoghi tra colleghi, caffè tra vicini di casa e telefonate al commerciante amico.

Sono fatti. Piccoli, ma potenti. Chiedono solo di essere guardati, non archiviati come se non fossero accaduti. Perché a guardarli, si è costretti a riconoscere una cosa: che in questo clima di avversione per leader vari e politici tout court c’è già ora un’esperienza in grado di vincere lo scetticismo. In chi la vive, e si ritrova in grado di affrontare l’ostilità altrui scoprendo qualcosa in più di sé (a cominciare da un’insospettabile letizia). E in chi se la vede proporre, e ritrova fiducia: un’ipotesi positiva per sé, qualcosa che lo sposta - lo tira fuori - dalla disillusione.

Bene: se questo è vero - ed è vero: è successo, in tanti casi - vuol dire che quell’esperienza, il cristianesimo, è più potente di scetticismo e rabbia. Più incidente. Muove, sposta, attira con una forza più grande delle zavorre. Una forza che qualsiasi altro argomento “politico” (la faccia del leader, il tifo pro o contro, gli ultimi brandelli di programmi) non ha più. Una forza che incontra il bisogno vero dell’uomo e quindi cambia anche la politica. Fino al dettaglio, fino a spostare la decisione sul votare o no, e sul perché votare. È qualcosa che vince. E vince ora, prima di sedersi o meno su una poltrona.

Questo «qualcosa» è un’esperienza, ha faccia e corpo. Si esprime anche in realtà che vanno difese, proprio perché offrono a tutti la possibilità di vincere sullo scetticismo. Quel «pronto intervento» elettorale, quei volti incontrati dalla signora al mercato, hanno la stessa natura di opere e realtà che a Milano, per esempio, ci sono e con un’altra amministrazione probabilmente non ci sarebbero, o sarebbero ostacolate, come ha spiegato Giorgio Vittadini in un articolo che invitiamo a rileggere con cura. Il rischio, a questo punto, è molto forte. E sarebbe un danno grave per tutti, non solo per chi quelle opere le gestisce o per chi ad esse si rivolge. Per questo il ballottaggio è importante. Importantissimo. Non si può restare in tribuna.

Ma quello che abbiamo visto ci obbliga a decidere. Se cambiare strada, illudendosi che in questa circostanza si possa essere più incidenti in altri modi (altri strumenti elettorali, strategie diverse). O se moltiplicare impegno ed energie (non parole e riflessioni, azioni: contatti da riprendere, iniziative da rilanciare, strade da ribattere) per andare a fondo nella verifica di un’esperienza che già ora può cambiare - cambia - te e l’altro. Fino al particolare. Alla politica. E al voto.