Bambini somali assistiti in un campo profughi.

La fame di un popolo in cerca di un vero Stato

«Alla calamità naturale si aggiunge quella "umana"». Il vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, Giorgio Bertin, racconta ad "Oasis" il dramma che da mesi attanaglia la Somalia
Martino Diez

Eccellenza, quali eventi hanno portato alla carestia in Somalia, che cosa sta succedendo e quali sono le prospettive per i prossimi mesi?
La carestia è la diretta conseguenza della mancanza di piogge. Secondo alcune statistiche era da 60 anni che non si registrava una situazione simile. Tutti i paesi del Corno d’Africa vivono di allevamento nomade e di agricoltura; basta che “saltino” una o due stagioni di pioggia per rendere le popolazioni estremamente fragili, visto che vivono di sussistenza, giorno dopo giorno. Scherzando io dico che non hanno ancora riflettuto bene sulla storia di Giuseppe in Egitto e il periodo delle vacche grasse e delle vacche magre! È questione di mentalità, senza dimenticare il sistema macroeconomico internazionale che di fatto punisce i più deboli. Per i prossimi 6 mesi, se anche ci saranno le piogge di ottobre-novembre, bisognerà continuare a inviare viveri alle popolazioni colpite dalla carestia.

Si tratta di un evento limitato alla Somalia o interessa tutto il Corno d’Africa? In particolare, qual è la situazione a Gibuti, dove Lei risiede?
La carestia in effetti non interessa solo la Somalia, ma tutto il Corno d’Africa: Eritrea, Etiopia, Gibuti e parti del Kenya e dell’Uganda. La Somalia, e in particolare il Centro-Sud Somalia, è la regione più colpita perché oltre alla calamità naturale si aggiunge anche la calamità “umana” e cioè un paese che vive da vent’anni senza lo stato, senza un’autorità vera e propria e spesso in continuo conflitto armato: l’insieme di questi fattori spiega la situazione drammatica.
Anche Gibuti è colpita dalla siccità: si dice che le persone che hanno assolutamente bisogno di un sostegno “esterno” siano almeno 120.000 su una popolazione di circa 800.000 abitanti. Ma a Gibuti c’è uno stato che può organizzare gli aiuti e prevedere anche delle risposte per un futuro di sviluppo. Inoltre mentre la Somalia Centro-Sud vive principalmente di allevamento e di agricoltura, Gibuti vive di servizi: l’agricoltura è praticamente inestistente perché impossibile e all’allevamento seminomade si dedica forse un sesto della popolazione.

Quali sono le principali organizzazioni umanitarie impegnate e quali difficoltà devono affrontare? La Chiesa e le Ong cattoliche possono operare sul terreno?
Per quanto riguarda la Somalia, sono coinvolte tutte le più importanti organizzazioni umanitarie: Croce Rossa, Oxfam, Caritas, Diakonia, Msf, Islamic Relief ...senza dimenticare le varie agenzie dell’Onu che in termine di quantità sono le più importanti. La Chiesa, tramite la Caritas, non può lavorare troppo direttamente: lo facciamo in genere attraverso “amicizie” e organizzazioni locali. Una nostra presenza più diretta ed aperta in un paese senza stato e in preda a un conflitto istigato da movimenti religiosi radicali non è opportuna né possibile. Per questo motivo ho consigliato alle diverse Caritas di operare a favore dei somali nei campi rifugiati del Kenya e dell’Etiopia oltre che a continuare quello che già si fa nel Nord della Somalia (Repubblica del Somaliland e Puntland). Vi sono ONG di ispirazione cattolica, soprattutto italiane, che a causa di una “minore rappresentatività” possono agire con maggior agilità e con qualche possibilità in più: sono da sostenere!

La Somalia è presente sui media internazionali solo in modo occasionale. Il risultato è che abbiamo tanta cronaca e poca analisi. Secondo lei, vescovo di Mogadiscio dal 1990 e nel Paese una prima volta negli anni 1969-1971 e poi in modo continuo dal 1978, è possibile individuare alcune costanti nella storia somala recente?
Ricordo il titolo di un libro scritto da un professore somalo, credo ancora in vita negli USA: Somalia: una nazione in cerca di stato. Se lo interpreto bene significa che la Somalia è costituita da un popolo essenzialmente nomade che durante la presenza coloniale si è trovato entro strutture statali. Dopo l’indipendenza e l’unificazione tra la parte italiana e quella britannica nel 1960, c’è stato un primo periodo repubblicano fino al 1969 e poi un periodo socialista-rivoluzionario che non sono riusciti a formare uno stato moderno e a creare una mentalità che andasse al di là degli interessi privati o di clan. Questo per me spiega la difficoltà tipicamente nomade di formare uno stato che sappia essere a servizio di una comunità nazionale. Per me questa difficoltà non significa impossibilità. Forse le esperienze amarissime di questi vent’anni di guerra civile e ora di carestia potrebbero aiutare la mentalità somala ad evolversi per far rinascere uno stato che tenga conto della tradizione tipicamente somala e allo stesso tempo sia aperto ai valori condivisi del mondo attuale.

Il regime di Siad Barre crolla nel 1991. L’intervento internazionale del 1992, presentato in chiave umanitaria, può essere visto come la prima operazione su larga scala contro i gruppi fondamentalisti di matrice islamica? Se sì, quali sono state le ragioni del suo fallimento?
A dire il vero nel 1992 non vi era una grande minaccia di fondamentalisti islamici, anche se già c’era una timida presenza: in quel momento era il “clanismo” che imperava. L’intervento del 1992 servì a salvare milioni di persone dalla catastrofe della fame e in questo senso fu positivo. Malauguratamente l’impressione che ancora ho è che non vi fosse una chiara volontà politica di far rinascere lo stato e di accompagnarne la struttura per qualche anno: in questo senso è stato un fallimento.

La Libia attuale vive un vuoto di potere che ricorda quello degli ultimi giorni del regime somalo. È inoltre uno Stato artificiale, nato al tempo del colonialismo, e a struttura tribale. Ritiene realistica per Tripoli un’evoluzione simile a quella somala o l’enorme divario sul piano economico esclude ogni parallelo tra i due Paesi?
Non sono esperto di cose libiche anche se ci ho passato due estati nel 1976 e 1977. Penso però che vi siano molte differenze perché le tribù libiche non sono così nomadi come quelle somale. In più il mondo libico culturalmente ha fatto parte di una tradizione arabo-turca che a mio parere dovrebbe facilitare una convivenza delle varie tribù in uno stato moderno influenzato oltrettutto da altri elementi culturali provenienti del mondo mediterraneo ... E naturalmente non si deve dimenticare la ricchezza economica diversa tra Libia e Somalia.

La Chiesa somala è stata vittima negli ultimi decenni di una dura persecuzione che ha portato al martirio di diversi sacerdoti, religiose e consacrate. Che cosa rimane della presenza cristiana in Somalia? E che cosa significa per Lei essere Amministratore Apostolico di Mogadiscio?
Per me persecuzione significa qualcosa di organizzato dal potere. Per questo ho raramente usato questo termine parlando dei nostri martiri della Somalia. È la mancanza dello stato e quindi di un’autorità che ha permesso a gruppuscoli o individui di utilizzare la religione per uccidere varie persone. Non dimentichiamo che anche altri somali musulmani sono stati uccisi per ragioni similari.
La presenza fisica cristiana è ridotta quasi a nulla, anche se c’è ancora un piccolo numero di cristiani somali, che però deve vivere di nascosto la propria fede. La nostra presenza in questo momento passa soprattutto attraverso l’azione umanitaria: la Chiesa accompagna il popolo somalo come può e con quello che può in questo momento. Per me questo significa essere un pastore che accompagna i nomadi somali e i loro greggi verso pascoli migliori: la convivenza, la condivisione delle risorse, il rispetto dei diritti delle persone e dei vari gruppi umani... In questo accompagnamento non vi è solo l’aiuto materiale, ma soprattutto l’attirare l’attenzione del mondo su questo dramma. I somali anzitutto, assieme alla comunità internazionale, devono impegnarsi con più continuità per trovare una soluzione. Il Papa attuale è intervenuto a più riprese in questi ultimi cinque anni invitando gli uomini di buona volontà a non lasciare sola la Somalia.

Da www.oasiscenter.eu