L'ultimo sospetto

Muammar Gheddafi ucciso a Sirte. Un fatto storico e tragico, avvolto nel sangue, come hanno mostrato le immagini che in diretta hanno fatto il giro del mondo. Istantanee di un epilogo che non lascia tranquilli (da Avvenire, 21 ottobre)
Luigi Geninazzi

La morte violenta di un dittatore, feroce e sanguinario come lo è stato Gheddafi, suscita sentimenti contrastanti di sollievo e di sgomento. Grande è il sollievo perché la fine del rais libico, accompagnata dall’uccisione e dalla cattura degli irriducibili che gli erano rimasti fedeli, segna la scomparsa definitiva di un regime ultra-quarantennale il cui crollo era stato più volte annunciato in questi ultimi mesi e troppo frettolosamente celebrato con la caduta di Tripoli lo scorso 21 agosto.
È finita la guerra, è finito un incubo per il popolo libico sceso in piazza a festeggiare la liberazione che coincide con la morte del tiranno. Ma quel viso insanguinato con la bocca aperta, quel corpo seminudo riverso su un telo bianco e trascinato dagli insorti come un macabro trofeo, sono destinati ad entrare nella storia come fotogrammi di una tragedia che pretendono di svelare ma che in realtà nascondono. Più che a Saddam Hussein, catturato dai soldati americani nel suo nascondiglio di Tikrit e solo tre anni più tardi condannato a morte da un tribunale di Baghdad, le immagini di Gheddafi ucciso ci riportano alla mente quelle di Ceausescu, il dittatore della Romania comunista fucilato a Bucarest da un plotone d’esecuzione dopo un processo sommario di pochi minuti. E a quelle, più lontane nel tempo ma più vicine ai noi italiani, di Mussolini ucciso a Dongo da un gruppo di partigiani.
Sulla dinamica della cattura e della morte del Colonello ci sono infatti diverse versioni in contrasto fra loro e i dettagli dell’accaduto non sono ancora stati chiariti. Gheddafi sarebbe stato colpito da un raid aereo della Nato mentre tentava di fuggire. Anzi no, sarebbe rimasto ferito nel corso di una sparatoria e deceduto mentre veniva trasportato in ospedale. Nient’affatto, l’avrebbero scovato nel suo nascondiglio, in una buca, ed avrebbe alzato le mani gridando «Non sparate!». Un epilogo che rimane avvolto nel mistero e che suscita, oltre all’umana pietà dovuta anche al tiranno più spregevole, inquietanti interrogativi.
Il sospetto è che si sia trattato di una vera e propria esecuzione, forse ordinata dall’alto per eliminare un "prigioniero eccellente" che avrebbe creato un mucchio di problemi a livello internazionale e avrebbe costituito un macigno forse insormontabile sulla strada della pacificazione nazionale. Su Gheddafi pendeva un mandato d’arresto del Tribunale dell’Aja che voleva giudicarlo per i suoi crimini, mentre il Cnt, il governo provvisorio libico insediato dagli insorti, intendeva processarlo in patria.
Senza contare che il rais in gabbia avrebbe potuto continuare a infiammare gli animi con i suoi proclami. Del resto va riconosciuto che Gheddafi ha mostrato di essere tragicamente coerente fino alla morte: non è fuggito all’estero, è rimasto in Libia dicendosi disposto ad affrontare «il martirio» (come annunciò nel suo ultimo messaggio audio), e stava organizzando l’ultima disperata resistenza nascosto nella sua città natale, a Sirte, vale a dire nel posto più facile da immaginare. Insomma, c’era il rischio che l’ex dittatore, colui che ha governato per quarantadue anni il Paese contando su un micidiale apparato repressivo ma anche sulle divisioni tribali e sul consenso di una parte della popolazione, potesse trasformarsi in un eroe, nel segno di quell’ambiguità istrionesca di cui è sempre stato maestro.
La Libia del dopo-Gheddafi promette libertà e democrazia, ma non tutte le ambiguità si sono dissolte. Certo, a differenza dell’Iraq – dove la cattura e poi la condanna a morte di Saddam non spensero, ma anzi riaccesero la violenza diffusa e gli attentati terroristici –, in Libia la resistenza armata non ha futuro, al-Qaeda non ha qui le sue roccheforti e non esiste una minoranza sciita in contrasto con la maggioranza sunnita. Ma la Libia del dopo-Colonnello non sarà tutta uguale e uniforme. Già emergono divergenze politiche e soprattutto religiose, eredità comune delle primavere arabe. Per quasi mezzo secolo il grande Paese nordafricano ricco di petrolio ha avuto un Capo assoluto che ha nascosto e represso le differenze. Un uomo solo al comando con cui il mondo aveva intrecciato conflitti e condiviso interessi. Un’epoca con tanti misteri che Gheddafi porta con sé nella tomba, in un luogo segreto.
(Da Avvenire, 21 ottobre 2011)