Scola: «Giussani testimone di una vita più ricca di fede»

Il testo e il video dell'omelia dell'Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, alla messa per il XXXIII anniversario del riconoscimento della Fraternità di CL e il X anniversario della morte di don Giussani (Duomo di Milano, 23 febbraio)


Angelo Scola



1. «Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”» ( Mt 4,17). Nell’orizzonte dell’annuncio del regno di Dio il Vangelo di Matteo situa il discorso delle Beatitudini. Salito su una delle colline vicino a Cafarnao, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Gesù, sedutosi, «si mise a parlare e insegnava» (Mt 5,2).
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Liturgia, fa un’importantissima affermazione che noi quasi sempre ignoriamo: Cristo «è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le Sacre Scritture» (Sacrosanctum Concilium, 7).
Carissime, carissimi, se questa sera, mentre Gesù ci parla, non siamo presenti, in Duomo o a casa, spalancati ad un ascolto fecondo di conversione – cioè con nel cuore, comunque sia il peso che ci si porta addosso, la decisione di cambiare e di cambiare subito – questo gesto eucaristico che intende far memoria viva del carissimo don Giussani, si ridurrebbe a cerimonia esteriore, priva, per finire, di ogni fecondità.
Ha scritto don Giussani: «La contrizione che sta all’inizio della Assemblea cristiana e nel sacramento della Confessione deve essere fatta guardando in faccia questa Presenza e dicendo: “sono così, riconosco che sono così”. È un gesto che incomincia col dolore e finisce nella letizia» (L’Alleanza, Jaca Book, Milano 1979, 114). Senza mendicare, qui ed ora, il perdono, la memoria di don Giussani illanguidisce in ricordo sentimentale, che inesorabilmente sfocia in rovinosi pregiudizi.

2. Il celebre testo delle Beatitudini, prima ancora di indicarci uno stile di vita che rovescia la mentalità che purtroppo largamente affligge il nostro io di europei narcisi, descrive i tratti della persona amata di Cristo Gesù. Lui, solo Lui è la roccia su cui dobbiamo poggiare per invocare quella trasformazione del cuore di cui, se siamo onesti, riconosciamo di avere costantemente bisogno. Più fede – e fede è una parola drammatica –, più fede per vivere gli affetti, più fede per vivere il lavoro, il riposo, il dolore nostro e dei nostri cari, la morte. Più fede per affrontare il male che compiamo e chiederne perdono; più fede per educare i nostri figli e perché i nostri figli scoprano la convenienza di lasciarsi educare; più fede per contribuire all’edificazione di una vita buona nella nostra società plurale e conflittuale, in un tempo in cui uomini e donne – e tra di loro tanti cristiani – vengono trucidati, cacciati dalle loro terre e dalle loro case, costretti ad una tragica emigrazione; più fede per accettare, Dio non lo voglia, la possibilità di un nuovo martirio di sangue per i cristiani d'Europa.

3. Il desiderio di nulla anteporre a Cristo, di guardare il Suo volto di uomo compiuto, ne sono certo, è vivo nel cuore di quanti, grazie proprio a don Giussani, hanno «acquistato una saggia educazione», come ci ha detto il libro dei Proverbi (Pr 1,3).
E tuttavia – lo sappiamo bene – se il desiderio non intacca quotidianamente la nostra carne e, attraverso di essa, tutta la realtà, resta una velleità che confonde.
La penitenza quaresimale, carissimi, è un andare in profondità (poenitus) che non può risparmiare alla nostra libertà la ferita che l’orazione all’Inizio dell’Assemblea liturgica ben descrive quando ci invita a «rinnovare con propositi di vita austera il nostro impegno cristiano; nella lotta contro lo spirito del male – domandiamo – non ci manchi per Tua grazia il coraggio di rinunce salutari».
Incrollabile fede in Gesù, nostro unico Redentore, e libertà coinvolta con Lui, l’uomo delle Beatitudini, sono l’energica e salutare indicazione che la Chiesa ci dona per il tempo di Quaresima. Noi vogliamo seguirla con cuore libero e lieto, perché – come ci ha ricordato Papa Francesco – «Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato» (Messaggio per la Quaresima 2015).

4. A dieci anni dalla morte del Servo di Dio don Luigi Giussani, mi è parso valesse la pena meditare attentamente, in modo personale e comunitario, un passaggio molto noto a tutti voi, tratto dagli Esercizi della Fraternità del 1997. Personalmente l’ho recepito come un frammento prezioso del suo testamento, una eredità da “trafficare” per il bene delle nostre persone e del movimento di Comunione e Liberazione. Scrive don Giussani: «È la vita della mia vita, Cristo. In Lui si assomma tutto quello che io vorrei, tutto quello che io cerco, tutto quello che io sacrifico, tutto quello che in me si evolve per amore delle persone con cui mi ha messo» (L. Giussani, Tu o dell’amicizia: Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione).

5. Il Libro della Genesi ci ha fatto riflettere sull’atto di creazione: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7). La robusta confessione di fede in Cristo Gesù, centro affettivo della sua esistenza, poggiava per don Giussani anzitutto sul riconoscimento di questa dipendenza permanente e solida dal Creatore. Egli solo può far vivere e mantenere in vita ciò che prima non esisteva. Così il Signore Dio mantiene in vita, in questo preciso istante, ciascuno di noi.
Ma, chiediamoci, come “un Altro” può essere «vita della mia vita», se questa mia fragile esistenza è sospesa a qualunque circostanza, favorevole o sfavorevole, a qualunque rapporto, di preferenza o di estraneità, fino al rifiuto… come può, insomma, il dono della vita avere senso e raggiungere così la sua pienezza? Solo se trova in me, in te, in ciascuno di noi la ragionevole disposizione a donare, a mia volta, la mia stessa vita. La logica del dono è insuperabile, al punto tale che se non la pratichi, donando la tua vita, il tempo comunque te la prende.
I discepoli Lo ascoltano sul “monte” mentre proclama beati quelli che il mondo considerava dei tapini, se non dei maledetti. Furono di certo sconcertati davanti a quel Suo dire, come lo siamo ancora noi oggi, ma forse per una sottile fessura del loro cuore, passò, in un lampo, la consapevolezza che in quelle parole controcorrente si giocava il loro destino e non solo il loro.
Amici, dare la vita, come ricordava don Giussani, resta il “caso serio” per ogni cristiano. E lo è, in modo stringente, dopo la scomparsa del fondatore, per tutti i membri di Comunione e Liberazione e di tutte le realtà che a questo movimento fanno riferimento. «Questo è un momento in cui la presa di coscienza della responsabilità per ognuno è gravissima come urgenza, come lealtà e come fedeltà. È il momento della responsabilità che del carisma si assume ciascuno» (L. Giussani, Il sacrificio più grande è dare la propria vita per l’opera di un Altro). Sono sue parole. A dieci anni dalla sua morte queste parole suonano ancor più penetranti e forse beneficamente destabilizzanti le nostre certezze e le nostre valutazioni, perché con cuore puro si faccia spazio alla verità del disegno di Dio.
La chiusa del frammento prima richiamato completa la descrizione che don Giussani fa della sua personale esperienza di fede: «In Cristo tutto si assomma…», ma a quale scopo? «Per amore delle persone con cui mi ha messo». E, a partire dalla prossimità, per amore di tutti gli uomini.
Si appartiene a Cristo perché ogni giorno ci si lascia convocare nella comunione con quanti appartengono a Lui. Non c’è personalità senza comunità, ma non c’è comunità autentica se non fa fiorire il volto singolare di ogni persona.

6. Come ha scritto don Julián Carrón, successore di don Giussani alla guida di Comunione e Liberazione, nella Lettera inviata a tutti i membri della Fraternità in vista dell’imminente incontro con Papa Francesco per ricordare i 60 anni di Comunione e Liberazione e i 10 anni della dipartita del Fondatore, quanti seguono il carisma di don Giussani – carisma di incarnazione – sono chiamati a radicarsi sempre più nella vita della Chiesa, mediante un riferimento esplicito e diretto al Papa e ai vescovi in comunione con lui. Ora, cari amici di questa diocesi, non dimentichiamo che il carisma di don Giussani è carisma cattolico, cioè universale, è un carisma fortemente ambrosiano. Perché la Chiesa universale precede, ma si realizza «nelle e dalle Chiese particolari» (cfr. Lumen Gentium 23). La Chiesa ambrosiana, come ben sapete, è intenta a proporre Gesù Cristo come Evangelo dell’umano agli uomini e alle donne di questo travagliato inizio di millennio. I cristiani, sostenuti dalla presenza misericordiosa del Risorto, intendono farsi carico, al di là del loro limite e per quanto possibile, del bene di tutti. Di questo ha bisogno la Chiesa ed ha bisogno il mondo.
L’Arcivescovo umilmente vi ricorda che approfondire personalmente e comunitariamente il carisma avuto in dono domanda di lavorare nella vigna in cui il Padre ci ha piantati attuando il metodo della comunione ecclesiale: pluriformità nell’unità. Con tutti i cristiani, e non solo con i cristiani, delle zone pastorali, dei decanati, delle comunità pastorali, delle parrocchie, delle associazioni e dei movimenti, la comune missione domanda in questo tempo di travaglio a tutti i fedeli della amata diocesi di Ambrogio e di Carlo di percorrere le vie dell’umano, dentro tutti gli ambienti dell’umana esistenza, a partire da quel nucleo fondamentale e insostituibile che è la famiglia fondata sull’amore fedele dell’uomo e della donna e aperta alla vita, per giungere fino agli estremi confini della missione ad gentes e fino – come ci ricorda papa Francesco – alle periferie dell’esistenza spesso emarginate e provate, come succede anche in questa nostra ricca Lombardia. Abbiamo problemi, certo, abbiamo problemi, ma non dobbiamo perdere il senso delle proporzioni nel dare peso ai nostri problemi. Tengo molto a questa umile richiesta. La mia non è la solita raccomandazione, un po’ venata da piaggeria, a stare dentro; non è quello. È il desiderio di una missione viva, che è nella grande tradizione di questo importante movimento.

7. «Expertus potest credere quid sit Jesum diligere». L’intensità di queste parole che canteremo è straordinaria, perché lega l’esperienza all’amore e entrambe alla fede. E chi più di Maria è esperta nell’amare Gesù? L’intercessione della Madonna, che dall’alto del Duomo protegge le terre ambrosiane, assicuri a noi tutti fede, speranza e carità. Amen.