Testimonianza e racconto

La Pagina Uno di "Tracce" di marzo, gli appunti dall’intervento di Julián Carrón alla Diaconia regionale di Cl. Milano, 25 febbraio 2014

Domandiamoci: la Scuola di comunità sul capitolo ottavo de All’origine della pretesa cristiana (Rizzoli, Milano 2011) ci consente di affrontare e di giudicare le sfide che si aprono davanti a noi? È possibile stare dentro le circostanze con tutta la misura umana della drammaticità della vita alla luce della Scuola di comunità?
Davanti alla realtà in cui ci troviamo a vivere, la prima questione che ciascuno di noi si deve porre è quale tipo di provocazione genera in noi, perché la realtà ci provoca comunque, e noi possiamo accettare la provocazione secondo tutta la sua portata oppure ridurla. Ciascuno di noi reagisce alla medesima provocazione in modi diversi. E quindi cerca di rispondere. In ogni gesto personale o comunitario sta davanti alla questione con la domanda su che cosa è utile o no per rispondere. Infatti non basta affermare che la realtà mi provoca perché questo, di per sé, mi faccia raggiungere qualcosa di oggettivo che apra l’io dell’altro e ridesti un rapporto. Qui ciascuno di noi fa la verifica, indipendentemente dall’opinione che possiamo avere, se la risposta che dà alla provocazione del reale è in grado di offrire veramente una risposta, di rispondere al problema che mi provoca e mi sfida.

A questo proposito, la Scuola di comunità è un esempio palese di questa dinamica, perché anche Gesù era provocato dalla realtà: «Sono come pecore senza pastore» (Mt 9,36), diceva infatti del popolo, perché non avevano il senso di se stessi, non avevano il senso della persona. E tutta la Sua risposta è proprio un tentativo di rispondere a questa provocazione. Qui emerge il valore del capitolo ottavo, perché tutto il capitolo è una risposta di don Giussani alla domanda: «Chi è Gesù?».
Sfido ciascuno di voi a verificare se in tutte le nostre risposte alle provocazioni abbiamo presente tutti i fattori elencati in questo capitolo. Se lo prendessimo davvero sul serio, incominceremmo a vedere se la nostra risposta ha presente tutti i fattori in gioco. E potremmo scoprire se essa è in grado di ridestare la persona nella realtà.
È evidente che nella nostra storia - senza dovere adesso rifare tutta la storia - abbiamo provato in tanti modi a rispondere alle provocazioni. E don Giussani ci ha sempre accompagnato e corretto in tutte queste nostre risposte alle provocazioni: abbiamo cercato di rispondere al ’68 con il raduno al Palalido del 1973 (per dirlo sinteticamente) e don Giussani, di fronte a questa risposta, ha detto: questa è una posizione totalmente reattiva, non è in grado di rispondere adeguatamente alla sfida. Noi condividevamo con i contestatori il loro desiderio di liberazione, ma questo non bastava perché la risposta fosse adeguata. E per questo alla Giornata di inizio anno abbiamo ripreso il giudizio di don Giussani del 1976 («Come nasce una presenza?», Tracce, ottobre 2013, p. X).
Ma quando nel 1982 viene pubblicato il primo Volantone di Pasqua dal titolo “Cristo la compagnia di Dio all’uomo”, tutti rimangono allibiti - e sembrava tutto chiaro già dal ’76 -. Ascoltiamo che cosa dice don Giussani: «Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo». (Uomini senza patria. 1982-1983, Bur, Milano 2008, pp. 88-89). Tutti avremmo potuto pensare che stavamo seguendo Cristo, ma don Giussani dice: attenzione! È diverso. Chi ha potuto vedere il video trasmesso questo fine settimana da Rete4, a motivo dell’anniversario della sua morte, alla domanda della giornalista: «Che cosa darà ai giovani? Dei valori?», risponde: «Dar loro non solo dei valori, ma innanzitutto e soprattutto l’esigenza di un significato ultimo, perché i valori se non sono percepiti come l’eco di un significato ultimo lasciano ancora indifferenti e servono soltanto a un progetto caso mai parziale, politico». Non è che uno pensi di fare “politica”; ma se la risposta è parziale, finisce inevitabilmente col diventare politico in tutto quello che fa.
Per questo, mettere davanti a tutti il Volantone su Cristo è stato per don Giussani come il recupero dell’origine, come un ritorno all’origine del movimento. Don Giussani si era reso conto che nel nostro fare c’era qualcosa che non corrispondeva più all’origine; anche seguendo la vita del movimento, rispondendo alle provocazioni della vita - e non rimanendo a casa davanti al camino! -, si stava verificando una perdita dell’origine. «Il Volantone è come il recupero dell’origine, è come un ritorno all’origine del movimento»; si era dato infatti «per scontato ciò per cui il movimento è sorto» (ibidem, p. 27). «Il Volantone ha riproposto l’origine (...), ha riproposto il movimento nel suo momento originale» (ibidem, p. 61). Allora vedete che non qualsiasi risposta alle provocazioni è adeguata, la nostra storia ce lo insegna costantemente.
E ancora, dopo i referendum sul divorzio e sull’aborto, don Giussani che cosa ha fatto? Ha proseguito questa battaglia o ha spostato tutta l’attenzione sulla battaglia contro la riduzione del desiderio operata dal potere, proprio perché senza desiderio non c’è la persona? Per questo ha insistito che il potere, attraverso l’esaltazione della menzogna come strumento, riduce il desiderio, tende a ridurre il desiderio. La riduzione del desiderio o la censura di talune esigenze è l’arma del potere. E questo - diceva - è diventato mentalità dominante: che noi possiamo difendere i valori, ma avendo ridotto i desideri.
Perciò, davanti a queste cose in cui vedeva venir meno l’io perché non si lasciava provocare in tutta la sua profondità di “io”, don Giussani ha parlato di «effetto Chernobyl» per dire a ciascuno di noi: «È come se non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché?la moda è un progetto del potere» (L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 182).
Don Giussani identifica anche due conseguenze: 1) la vita cristiana fa fatica a diventare «convinzione»; 2) «per contrasto, ci si rifugia nella compagnia come in una protezione» (ibidem, p. 181).
Allora è per questo che acquista tutta la sua portata, proprio per rispondere alla provocazione, la sua affermazione del 1987 che «la persona ritrova se stessa in un incontro vivo» (ibidem, p. 182). Questa non è una frase spirituale, non è una scappatoia per non rispondere alle provocazioni. La questione è come stiamo noi dentro al reale fino a consentire questo ridestarsi dell’io, senza del quale il potere ci può lasciare andare avanti nella nostra lotta per i valori e intanto ci svuota dal di dentro. Ed è per questo che non c’è una descrizione più realistica di che cosa sia l’uomo di quella contenuta nel capitolo ottavo de All’origine della pretesa cristiana. In questo si dimostra chi è Cristo, e si vede come qualsiasi altro tentativo può sembrare la risposta a un aspetto del problema, ma non è una risposta cristiana; e quindi non è in grado di rispondere a tutta la drammaticità dell’uomo.
Ciascuno, poi, può decidere che cosa fare, ma il capitolo è un canto a questo, a questa comprensione senza della quale noi non faremmo - pur con tutta la nostra agitazione - niente che possa veramente rispondere a tutta la drammaticità della situazione. Per questo la Scuola di comunità dice: «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè [tutte] le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino» (p. 104). Solo una Presenza può ordinare l’istintività al fine, rispondere al disordine umano; «“Chi mi libererà da questa situazione mortale?” Questo grido [dice don Giussani] è l’unica origine perché un uomo possa considerare seriamente la proposta di Cristo» (p. 121). Per questo, il capitolo ottavo non è una lezione di spiritualità o di morale! È la documentazione di chi è Cristo, perché «la religiosità cristiana sorge come unica condizione dell’umano (...), senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione» (pp. 108, 124) dei problemi umani.
Capite bene che adesso non basta ripetere questa frase o cambiarla con un’altra e agitarci. No, questa è la verifica che ciascuno di noi deve fare dove è, se questo ci serve per vivere noi e se serve per gli altri, per tutti i drammi con cui la vita ci provoca ogni giorno attraverso le persone accanto a noi, se è in grado di rispondere alla provocazione del vivere. Se noi non siamo consapevoli di questo, il nostro agitarci non basterà, e per questo il potere ci consente questa agitazione - tanto, in fondo, una qualche legge la farà comunque chi ha il potere! -. Ma se non si ridesta la persona, se la persona non viene ridestata, è difficilissimo che non prevalgano altre preoccupazioni. Questo non vuol dire che, allora, non si prendano più iniziative, ma che, se non succede questo ridestarsi dell’io, saremo costantemente sconfitti.
Qui di nuovo uno potrebbe dire: «Ma davanti a certe provocazioni qualcosa occorrerà pur fare!». La prima cosa che occorre fare è giudicare la dimensione del problema - perché se noi trattiamo il tumore con la Tachipirina, può essere una risposta alla provocazione, ma quanto adeguata? -, perché la dimensione del problema che descrive il capitolo ottavo è di un calibro tale che non basta una qualsiasi «Tachipirina». È soltanto prendendo in considerazione la dimensione del problema che si capisce quale azione è proporzionata ad esso. E allora si comprende perché don Giussani ha insistito tanto sulla personalizzazione della fede: non è che non fosse realista o che non accettasse le provocazioni del reale!

Se non impariamo da questo, noi ripetiamo un tentativo che già di per sé si è dimostrato fallimentare, perché il tentativo illuministico di difendere i valori senza Cristo non è cristianesimo, è solo Kant. Perché l’Illuminismo non voleva cancellare i valori cristiani, si è illuso di poterli vivere e conservare senza Cristo.
Proprio a questo livello si colloca la correzione della Scuola di comunità: senza il divino l’umano e i suoi valori non si salvano. Solo il divino è in grado di conservare tutte le dimensioni dell’umano, come stiamo vedendo. Salvare i valori senza Cristo: che lo pensasse Kant lo capisco, mi stupisce che lo possiamo pensare noi dopo aver visto il risultato della storia nata dall’Illuminismo per cui ci allarmiamo. Quello che vediamo adesso non è altro che la documentazione del fallimento del tentativo di affermare i valori senza Cristo. Che noi possiamo pensare di riproporre quello che si è già documentato storicamente fallimentare, permettetemi di dire che mi stupisce. Perché in fondo è il prevalere in noi della mentalità dominante, illuministica, di tutti. Ma questo non è il movimento!
O recuperiamo l’origine, secondo tutte le dimensioni che la Scuola di comunità ci mette davanti, o saremo assolutamente «nessuno» nel mondo, perché significherebbe che il potere è riuscito a ridurre le esigenze dell’io, e noi finiremmo con l’essere strumentalizzati per altri scopi. Non dimentichiamo che siamo partiti tutti da leggi perfette, ma questo non è bastato perché in pochi decenni la valanga non facesse piazza pulita di tutto! E questo è un dato storico, possiamo arrabbiarci o no, ma non lo cambiamo con le nostre arrabbiature. E se noi ripetessimo quello che si è già dimostrato fallimentare, poveri noi!

Allora, il valore del capitolo ottavo è cruciale proprio per questo, perché ci offre uno sguardo completo e realista della reale situazione dell’uomo e l’indicazione da dove si può ripartire; significativamente papa Francesco a La Civiltà Cattolica ha detto: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione. (...) Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali» («Intervista a papa Francesco», a cura di A. Spadaro, La Civiltà Cattolica, III/2013, pp. 463-464). E alla luce di questa preoccupazione, nella Evangelii Gaudium sottolinea: «Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con tali aspetti secondari che, pur essendo rilevanti [secondari non vuol dire che non siano rilevanti], per sé soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo. Dunque, conviene essere realisti e non dare per scontato che i nostri interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo e che possano collegare il nostro discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva» (34). Pensate che tutto questo non lo avrebbe potuto sottoscrivere don Giussani?
Quando nel 2004 Giussani ha scritto a Giovanni Paolo II che voleva semplicemente riproporre gli «aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano (...) nei suoi elementi originali, e basta» (Tracce, aprile 2004, p. 2), stava dicendo la stessa cosa. Basterebbe avere presente uno dei primi libretti del movimento, Tracce di esperienza cristiana. Più elementare di quello non c’è niente.

Leggo ancora dalla Evangelii Gaudium: «L’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (35). La vera sfida è se questo accade, perché noi siamo stati scelti per poterlo testimoniare, per mostrare questa radiosità per cui si può ridestare la persona. «Tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo» (36).
Quando alla Messa per don Giussani il Cardinale Scola si è domandato come possiamo rispondere a tutte le sfide del vivere, ci ha detto: «Testimonianza e racconto». Ha parlato della testimonianza di una vita, e vediamo tra di noi tanti esempi di come questa vita si comunichi. Per questo ho raccontato tante volte l’episodio, per me estremamente chiarificatore, delle donne di Rose, nel quale vediamo che anche un valore così decisivo come quello della vita si può oscurare e che solo nell’incontro cristiano è ridestato in tutta la sua bellezza. Inizialmente Rose aveva pensato di rispondere alla provocazione che era stata per lei l’impatto con la malattia (l’Aids) di alcune donne di Kampala aiutandole a procurarsi le medicine, ma ben presto ha visto che questo non bastava perché, dopo averle prese qualche volta, smettevano e si lasciavano morire. Perciò, consapevole che solo il divino salva tutte le dimensioni dell’umano, ha cominciato ad annunciare loro Cristo, e questo ha ridestato in quelle donne la coscienza del valore della loro vita perché abbracciata e amata dal Mistero. Di conseguenza, hanno ricominciato a prendere le medicine. Questa stessa dinamica l’abbiamo vista accadere anche in tanti altri tra noi, come Natascia o i carcerati di Padova, che sono come una testimonianza della modalità con cui possiamo, oggi, difendere senza ambiguità la vita e la sua dignità infinita.
Riflettere su queste cose mi sembra cruciale, se non vogliamo perdere la bussola.

Testimonianza e racconto