La sfida più potente alla positività del reale

Appunti dall’Assemblea di Julián Carrón con gli universitari della Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Milano in occasione della morte di Giovanni Bizzozero. Facoltà di Fisica, Milano, 9 novembre 2011

FEO. Una delle cose che Julián mi ha detto venerdì mattina, quando ha saputo di Bizzo, è stata questa: «Con la sua morte, Bizzo ha compiuto un grande gesto di amicizia per noi, perché ci ha messi tutti davanti all’eterno». Posso dire, per l’esperienza vissuta in questi giorni, che questa frase è vera. Il mio desiderio oggi è che possiamo aiutarci a guardare quello che è veramente accaduto, lasciandoci provocare fino in fondo: possiamo dire anche oggi, davanti alla morte di un amico caro, che la realtà è sempre ultimamente positiva? Da quali segni nell’esperienza lo possiamo dire? Capite che, di fronte a questa domanda, ci giochiamo la vita. Sono qui con il desiderio che possiamo aiutarci a guardare le urgenze che sono emerse. Che Julián abbia accettato di venire è un’occasione enorme, per cui non perdiamo tempo.

Intervento. Non sono riuscito a ridurre la morte di Bizzo. Sono rimasto spiazzato e tuttora faccio fatica a esserne cosciente fino in fondo. Quella sera guardavo il corpo e dicevo: dov’è la realtà positiva? Dov’è? In questi giorni ho la necessità di un cristianesimo che risponda fino in fondo a ciò che è successo. Due esempi. Al Rosario sento un papà che dice al figlio piccolo: «Guarda che Giovanni non se ne va, rimane qui con noi». A me è venuta subito una reazione: che cosa vuol dire? È una frase che diciamo ai bambini per consolarli o è vero? Cosa mi dice realmente che Bizzo non è nel nulla? Cosa mi dice che ora Bizzo è compiuto? È un salto che la ragione non può comprendere? In tutto ciò, ho davanti le parole di sua mamma ai funerali: «Ragazzi, non credete a quello che vi dicono: la realtà è davvero positiva». E questo è l’evidenza che esiste un cristianesimo convincente e colmo di ragioni, che io desidero e non conosco.

JULIÁN CARRÓN. Non pensavo che avremmo potuto fare così in fretta la verifica della Giornata d’inizio anno. Ma la vita urge. E sono contento, perché già il modo con cui fate le domande dice la ragionevolezza del percorso che stiamo facendo. Perché, come vediamo, non siamo riusciti a ridurre questa circostanza - come invece accade tante volte - al solito. Per questo la domanda diventa ancora più decisiva: dov’è la positività della realtà davanti a questo fatto?
Qual è la novità dei vostri interventi? Che cominciate già a intuire che abbiamo bisogno di un cristianesimo in grado di rispondere a queste sfide. Davanti a questo fatto l’affermazione che «la realtà è positiva» è vera o non è vera? Ci diciamo che è positiva per consolarci?
Se riprendiamo la Giornata d’inizio, Davide Prosperi terminava il suo intervento con questa domanda: «Se quello di cui abbiamo più bisogno per vivere (al pari dell’aria che respiriamo) è una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità, ti chiediamo: dove nasce e come si realizza una ragione così?». E io rispondevo: una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento cristiano. È in forza dell’avvenimento cristiano che la ragione compie la sua natura di apertura davanti allo svelarsi stesso di Dio. Si capisce perché don Giussani afferma che «il problema dell’intelligenza è tutto dentro» l’episodio di Giovanni e Andrea. Perché il cristianesimo è questo? Don Giussani dice: «Il cuore della nostra proposta è [...] l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso» (Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma-Milano 1993, p. 38). Da che cosa si vede che è così? Che cosa accade quando succede il cristianesimo? Ci rende più visionari, in modo che possiamo consolarci davanti agli urti della vita? Ci porta fuori dal reale o ci consente, come mai prima, di fare esperienza di un uso della ragione finalmente vero? Don Giussani diceva che il cristianesimo accade come avvenimento. Non quando ne parliamo a vanvera e non succede niente. Non quando il cristianesimo è ridotto a una serie di istruzioni per l’uso, per cui continuiamo a vivere come tutti ma aggiungiamo un “cappello” o facciamo qualche attività per distrarci... No! Il cristianesimo accade solo come avvenimento. Che cosa succede quando ti innamori? Accade qualcosa nel tuo io o no?
Se il cristianesimo non accade, se non è un avvenimento, allora capisco che davanti a queste cose siamo smarriti come tutti. Ma quando accade, cosa accade? Un sentimentalismo? È solo un’emozione? È soltanto un applicare le istruzioni per l’uso? Dice Giussani: «Questo avvenimento [quando il cristianesimo è un avvenimento] resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”». E cosa vuol dire che resuscita e potenzia l’io dell’uomo? L’avvenimento cristiano rende l’uomo uomo, cioè più in grado di vivere secondo le sue evidenze originali, più in grado di essere colpito dal reale, di vivere la realtà secondo la sua verità, perché capace di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità della realtà.
Allora, quando stiamo davanti a questo fatto, la morte di Giovanni, ciascuno di noi - volente o nolente - fa la verifica se il cristianesimo per lui è accaduto come avvenimento. Sa se è solo una consolazione o se è successo qualcosa, per cui niente - neanche un fatto così drammatico - riesce a chiudere la ragione e ad impedirle di riconoscere tutto il reale. Vi sfido! Lo pensavo quando è morto mio papà: immaginate Giovanni e Andrea. Hanno vissuto con Lui, L’hanno visto, hanno visto quello che hanno visto, tutti i fatti, tutti i segni, tutta la documentazione di chi era Lui... Fino all’ultima: L’hanno visto risorto. E immaginate quando è morto il primo dei Dodici: si trovavano nella nostra identica situazione, davanti a un amico che è morto. Che cosa hanno pensato? Che cosa non potevano togliersi dagli occhi per nulla al mondo? Che avevano visto Uno vivo. Vivo! È soltanto per avere visto Uno vivo che potevano usare una ragione aperta e non una ragione chiusa, fermandosi all’apparenza della realtà. Non potevano più guardare la bara del loro amico senza avere negli occhi quello che avevano visto. Erano visionari? O era quel fatto che consentiva loro di usare la ragione secondo tutta la sua natura di ragione?
Senza questo, senza che il cristianesimo accada in noi come un avvenimento, qualsiasi cosa - non solo un dramma come la morte di un amico - ci chiude. E guardiamo la realtà come tutti. Ma quando Giovanni e Andrea pensavano a Lui era per consolarsi o era un fatto di conoscenza che non potevano togliersi dagli occhi? Era reale o no? Ciascuno deve decidere. Che cos’è più complicato? Riconoscere che adesso nessuno di noi dà la vita a se stesso (dovete essere visionari per riconoscere questo?) o riconoscere che Colui che ci dà la vita ce la può ridare per sempre? Riconoscere che adesso nessuno di noi dà la vita a se stesso non ci rende capaci di riconoscere che Colui che ci dà la vita ce la può ridare per sempre? Siamo dei visionari quando pensiamo che non diamo a noi stessi la vita o è l’uso della ragione che ci consente di non essere così fuori di testa e presuntuosi da pensare il contrario? E se non ce la diamo noi, lo ripeto, per Dio è più difficile darci la vita adesso o ridarcela dopo, per sempre?
Il problema è che noi viviamo con la testa nel sacco: non riconosciamo le cose presenti come presenza. Diamo tutto per scontato. E poiché non ci sorprendiamo ogni mattina che la vita ci è stata data, ci è data adesso, facciamo fatica a pensare che Colui che ci dà la vita adesso possa darla a Giovanni, ora. Ma come riusciamo a spiegarlo davanti a noi stessi? Che cosa ci consente di usare così la ragione? Che cosa rende ragione alla ragione? Soltanto un’esperienza come quella che viviamo è in grado di non chiudere la questione. Senza questo, non riusciamo a non pensare alla fede se non come a una consolazione. Non riusciamo a riconoscere che l’avvenimento cristiano rende possibile alla ragione di riconoscere il reale secondo tutti i fattori, tanto è diventato nostro, un tutt’uno con noi, il razionalismo, cioè un uso ridotto della ragione.
Questo è ciò che il cristianesimo come avvenimento continuamente sfida e fa saltare per aria. Quando dal primo momento sperimentiamo che succede qualcosa che fa esplodere la vita, dando un’intensità al vivere che non potevamo sognarci, allora inizia a saltare questa misura della ragione e cominciamo a spalancarci. E quando cominciamo a usare così la ragione, non possiamo guardare il reale senza pensare al Mistero che lo abita. Fino al punto di dire, in qualsiasi circostanza, che la realtà è positiva proprio per questo Mistero che la abita. Non perché la facciamo diventare positiva noi, ma perché non riusciamo - per quello che succede - a ridurla alla nostra misura. La nostra misura salta per aria, per i fatti che accadono. È per questo che il cristianesimo sfida, come nient’altro, l’uso della ragione. E spalanca, resuscita e potenzia non il fatto di essere visionari, ma la ragione! Se fossimo dei visionari, le cose che diciamo non sarebbero fatti di cui abbiamo esperienza. Sarebbe tutto virtuale, ma sappiamo tutti qual è la differenza tra virtuale e reale. Se no, la vita ce lo farà capire, perché il treno arriva puntuale alla stazione.

Intervento. Volevo raccontarti che cosa mi è successo in questi giorni. Venerdì mattina Riccardo mi ha detto: «Questa notte è morto Bizzo». Di schianto mi sono resa conto che la vita, l’esistenza tutta, è potentemente altro rispetto alle mie capacità. Veramente, cioè, la mia vita non dipende da me. L’esserci mio, di Bizzo o di quelli che ho più cari, per quanto io sia grata della loro presenza, non dipende da me. Neanche il mio desiderio, così grande, che ci siano me li tiene accanto. Mi sono resa conto profondamente che io sono una creatura, Bizzo è una creatura, siamo creati. Sono stata persino una sorpresa per i miei genitori. Mi sono accorta che tutti i miei tratti, il mio carattere e la mia indole sono giunti a loro imprevisti. Il mio esserci è una sorpresa anche per me, allora è esplosa la domanda: ma chi mi ha fatto? Chi mi ha pensato? Mi sono scontrata col fatto che Uno, prima di chiunque altro, ha desiderato Bizzo, e non per modo di dire, ma al punto di farlo, di tirarlo fuori dal nulla, di farlo essere, di dare vita alle fibre del suo corpo, di pensare per lui un volto unico. Continuamente mi viene da pensare che potevamo non esserci, invece ci siamo. E mi sono resa conto che il mio esserci, l’esserci di Bizzo, è il gesto di Uno, l’atto continuo di un Altro. Di fronte a questo, come pensare che Chi più di chiunque altro ha desiderato Bizzo, a un certo punto, si sia dimenticato di lui, non si sia più preso cura di lui? Così, di fronte a chi sentivo dire: «Non ha senso quello che è successo», mi usciva una ribellione incredibile. Mi veniva da dire: come può essere che Colui che è stato fedele a Bizzo più di tutti noi, più di tutti i suoi amici, facendolo essere istante dopo istante, si sia dimenticato di lui? Di fronte al corpo all’obitorio mi chiedevo: dov’è veramente Bizzo ora? Per l’imponenza del rendermi conto che siamo creature, non potevo non rispondere: è tornato al Padre, tra le braccia di suo Padre. Al funerale mi sono commossa, ero totalmente ferita per essere una creatura. Mi veniva in mente quel passo della Bibbia: «Ti ho amato di un amore eterno, ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Tremavo nell’accorgermi di essere stata plasmata da un Altro, di essere desiderata io, proprio io, da un Altro. Mi sono riscoperta figlia di Dio, un puntino nella realtà toccato e voluto dal Mistero. E mi chiedo: perché a me è dato vivere? Qual è il mio compito? Ed è uscito tutto un desiderio vertiginoso di vivere obbedendo al Padre. Quando al cimitero hanno ricoperto Bizzo di terra, è esplosa tutta l’esigenza di eternità, è tornata la domanda che mi accompagna e mi ferisce: cosa è per sempre? Che cosa di me è eterno? È insopportabile che la mia vita sia una parentesi. Davanti al bisogno grande del mio cuore e davanti a Bizzo che è sepolto, e che è così altro da ciò che posso pensare, vibravo rendendomi conto che l’amore di Dio per me e per noi, sue creature, è eterno. Vedo la sproporzione totale tra questa coscienza di me come creatura, figlia di Dio, cui il mio cuore anela, e una concezione di me ridotta. Volevo chiederti: come questa coscienza, emersa così chiara in questi giorni, può diventare stabile, radicata in me? Vedo che si offusca in me facilmente, viene coperta da mille preoccupazioni. Così il fatto di vivere non è più una provocazione, ma una preoccupazione; e torna il timore e lo spavento che in questa obbedienza al Padre io possa perdere qualcosa.

CARRÓN. Marta, come sei arrivata a questa coscienza?

Intervento. Dall’anno scorso, dal lavoro sugli Esercizi, mi trovavo ferita e bisognosa. In tutto questo periodo non ho trovato niente così all’altezza del mio bisogno e della mia ferita come il fatto di Cristo.

CARRÓN. È soltanto questo. Perciò non è per il fatto che diciamo queste cose che capiamo: è solo quando succedono che si capiscono. Che cosa ci rende così? Una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento cristiano. Noi partecipiamo a questo avvenimento nella comunità cristiana, solo se viviamo nella comunità cristiana così come lei l’ha descritta: una comunità cristiana che costantemente ci sfida, fa accadere delle cose che in continuazione ci educano a questo. Neanche un evento così doloroso, infatti, riesce a mantenere aperta la ferita, perché la ragione decade. Lo abbiamo sentito tante volte a Scuola di comunità, o nella lettera di quel ragazzo di Roma alla Giornata d’inizio anno: quando era all’ospedale tutto era nuovo, niente era scontato, ma quando è uscito tutto è tornato a essere scontato. Vuol dire che neanche un fatto che ci ferisce così tanto è in grado di tenere aperta la nostra ragione. Lo consente solo l’essere dentro la comunità cristiana, il che la dice lunga su che cosa è per noi la comunità cristiana.
Quando ci rendiamo conto che è solo la comunità cristiana che ci fa vivere la realtà, come ci ha testimoniato Marta, questo che cosa dice della comunità cristiana? Che cos’è? Perché un gruppo di uomini poveracci e pieni di limiti - come ognuno sa di essere, se è minimamente cosciente - può dare un contributo così decisivo a vivere il reale con questa verità? Perché siamo bravi? No, sappiamo tutti di non esserlo: «Solo il divino [diceva don Giussani di Cristo, come il segno più stupefacente di chi era] può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 104), e farle venire a galla alla coscienza di ciascuno di noi. Allora, quando parliamo così di una comunità cristiana, questo dice della sua origine: in quei vasi di creta che siamo noi c’è il divino. Perché nessun altro fatto, pur eclatante, ha la capacità di mantenerci aperti, Marta. Neanche un fatto così eclatante come la morte di un amico.
Quello che mi colpisce della testimonianza di Marta è lo sguardo che, quando tutto sembra crollare, le consente di usare la ragione come lei l’ha usata. Non ci ha detto che ha avuto una visione, per vivere questo. Ha cominciato a brandire la ragione, cioè a guardarsi senza darsi per scontata! A guardarsi come creata, come creatura, a vedere il suo esserci come sorpresa, come non scontato. Fino al punto di riconoscere Uno che ha desiderato che Bizzo vivesse, perché la vita è un atto continuo di un Altro. Fino al punto di sentire tutta la ribellione dentro di sé quando qualcuno cercava di ridurlo. Altro che, come diceva qualcuno all’Equipe del Clu, pensare che questo riconoscere un Altro sia una complicazione! Che ribellione! Tutto l’io, ogni fibra dell’essere si ribella davanti a questa riduzione della realtà.
Proprio perché il cristianesimo genera un uomo così, un uomo in grado di non ridurre, e che si ribella quando sente che uno riduce, allora uno incomincia a capire che Chi ha la forza di generarci, ha anche la forza di darci la vita per sempre. Siamo nati per vivere per sempre. C’è Uno che ha la potenza, l’energia di generarci dal nulla: figuratevi se ha qualche problema a darci la vita per sempre! Perché posso dire questo? Basta che ciascuno pensi a che cosa è successo nella sua vita quando è avvenuto Cristo, e non come puro nome! Quell’intensità di vita, quella capacità di stare nel reale, quella positività nell’affrontare tutto, quella coscienza di te, quello stupore davanti a te, questa intensità, questo di più di umanità te lo dai da te? Neanche una virgola ti dai da te. Allora l’unica modalità per spiegare il fatto che siamo i primi a stupirci di questa intensità del vivere, un’intensità così assolutamente sproporzionata a tutti i nostri sforzi e tentativi, è arrenderci all’evidenza di questo Altro che è in mezzo a noi, tanto è palese che non possiamo crearcelo noi.
Questo vuol dire che Lui è all’opera, e che perciò non siamo soli con il nostro niente. La realtà è positiva perché c’è Lui, perché è Lui la realtà, dice san Paolo (cfr. Col 2,17). La realtà è positiva perché c’è, e per questo possiamo riconoscerla. Anche in questo momento. Anzi, questo momento è quello che ci sfida più di qualunque altra cosa: ci desta una domanda così potente che dobbiamo trovare una risposta all’altezza della domanda.
Dobbiamo renderci veramente conto di che cos’è la vita che ci è stata data e ci è data, di che cos’è l’intensità di vita che abbiamo incontrato nell’avvenimento cristiano: soltanto questo ci impedisce di ridurre la ragione. Perché non stiamo parlando di teorie astratte, ma della vita, ragazzi: se la vita che viviamo qui, ora, non è vera, se non è vita, se non è reale, allora neanche la morte di Bizzo è reale. È reale la vita? È reale l’intensità di vita che ci troviamo addosso vivendo la fede, è reale o no?
La questione, allora, è che questa realtà ha un’origine reale: Uno reale. Non è qualcosa che appare virtualmente. L’origine deve essere reale così come la vita che ci è stata data, e come l’intensità di vita, come questo di più di vita che introduce Cristo. Reale! Tanto è vero che fuori dal cristianesimo non potremmo neanche sognarcelo.
Perciò, davanti a un fatto come la morte di Giovanni, chi non ha vissuto il cristianesimo come avvenimento reale resta smarrito, in lui prevale la misura razionalistica e così non capisce niente. Vive il dramma della domanda senza possibilità di una risposta. Ma noi la risposta non ce la inventiamo, non la tiriamo fuori dal taschino, non siamo visionari: la risposta l’abbiamo addosso perché non possiamo togliercela da ogni fibra dell’essere. Non ce la inventiamo ad hoc per rispondere a questa questione. Ed è quando arriva una sfida così potente che ci rendiamo veramente conto di che cosa ci è capitato nella vita, di quale grazia ci è capitata!

Intervento. Marta mi aveva raccontato queste cose venerdì sera. Mi avevano sfidato moltissimo. Mi prendeva un’angoscia insopportabile ed era il vuoto, davanti agli amici restavo ammutolita, non sapevo cosa dire, a pranzo, a cena... Provavo a immedesimarmi totalmente con quello che mi aveva raccontato Marta, ti giuro, ci provavo sinceramente. Perché ero nuda e cruda davanti a quello che stava succedendo. Ma non riuscivo: non ho pace...

CARRÓN. Che cosa impari da questo? Vedete? Se la fede non accade, se il cristianesimo non è un avvenimento, non riusciamo a convincerci con un nostro tentativo. Provateci! Siamo noi ad inventarlo? A lei piacerebbe, farebbe di tutto. Ma non ci riesce. Vedete come la menzogna emerge? La menzogna non di lei, ma la menzogna di dire che questa è un’invenzione nostra: per nulla al mondo lei riuscirebbe a inventarlo! E questo duemila anni dopo la Risurrezione di Gesù, capite? Duemila anni dopo che qualcuno ha detto che Gesù è risorto. Neanche dopo duemila anni, in cui l’abbiamo sentito e risentito migliaia di volte, riusciamo a generarlo noi. Allora la fede, come diceva anni fa il Papa a Verona, è una creazione o un riconoscimento? Solo uno che sta rinchiuso nella sua stanzetta può cercare di generarla come una sua creazione e accontentarsi. Ma quando la vita urge, l’ultima cosa che ci viene in mente è che la generiamo noi. Le menzogne hanno le gambe corte: al primo tornante sono già sconfitte. Dove sta, allora, il tuo errore? Che non dovevi partire da uno sforzo di immedesimazione (che si riduce facilmente a una tua immaginazione) con ciò che ti ha detto Marta, ma da che cosa è capitato a te nella vita e che non puoi toglierti di dosso neanche adesso: la morte di Bizzo ti fa rendere conto che tu ci sei adesso. Ti dai la vita da te stessa? Questo vuol dire che la nostra difficoltà non è nell’essere visionari, ma al contrario nel riconoscere il reale, nel partire dal reale come esperienza. E quando proviamo a sostituirlo con un tentativo di creare o di immaginare qualcosa, ci rendiamo ancora più conto che non lo generiamo noi. Hai qualche difficoltà a riconoscere che ci sei? Hai qualche difficoltà a riconoscere che in questa aula c’è la luce? O che siamo qui in tanti? Fai fatica a immedesimarti con questo? È così. Non devi immedesimarti in quello che ti dice Marta come discorso, ma in quello che ti dice per come lei vive il reale. Allora inizi a usare la ragione diversamente. Ma non essendoci abituati, facciamo una fatica enorme.

Intervento. Io non faccio alcuna fatica a riconoscere che non sono niente, che sono fragile... Perché è così. Ma questo non mi rende certa che Bizzo adesso sia compiuto.

CARRÓN. Una cosa per volta. Che cosa ti fa capire il fatto che tu non ti fai adesso? Non dovete fare tripli salti mortali, ma iniziare a usare la ragione. Il fatto che tu non ti dai la vita, che cosa ti fa capire? Non che Bizzo è compiuto, ma che cosa? Che cosa implica il fatto che tu non ti dai la vita? Maria, usa la testa! Non lasciarti bloccare! Vedete? Ci lasciamo bloccare costantemente dal nostro sentimento e diventiamo scemi. Scemi vuol dire che è come se la ragione fosse paralizzata. Ma tu non sei scema, perché se sei arrivata fino qui, all’università... qualcosa hai fatto! Se puoi riconoscere che ci sei adesso, la cosa più evidente è che c’è un Altro che ti fa ora. Fai fatica a riconoscerlo? Questo è il primo passo. Allora vuol dire che Colui che ti fa adesso, Colui che ha fatto Bizzo, è all’opera nella realtà: se non fosse all’opera nella realtà, non saresti qua. Se cominci a guardare questo che ti rende presente ora, comincerai a guardare la realtà non solo in base alla tua capacità. Se la guardi solo in base alla tua capacità, pensi che quello che succede nella realtà sia solo ciò che la tua piccolezza riesce a immaginare: dato che la tua piccolezza, la tua ragione come misura, non riesce a immaginare come un tuo amico possa vivere per sempre, allora questo per te vuol dire che non è vero. E se qualcuno ti dicesse altro per te sarebbe sbagliato, perché la tua misura è una ragione ridotta. Ma quante volte ti è capitato nella vita che sono successe cose che non pensavi? «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia» (W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V). Quando diciamo che la ragione per noi è una misura, stiamo parlando di un problema per filosofi, per addetti ai lavori, per gente che si complica la vita? Quando arriva una cosa che va al di là della nostra capacità di immaginazione, della nostra capacità di misura, della nostra capacità di vedere come può succedere, diciamo: «È impossibile». Neghiamo la categoria della possibilità, cioè neghiamo la ragione. Allora siamo bloccati. Ma questo è vero o no? Sono successe tante cose nella tua vita che non pensavi sarebbero potute accadere, sì o no? Questa misura è saltata migliaia di volte nella tua vita, sì o no? Allora chi ti dice che non possa saltare ancora?
Questo è un percorso, come vedete, più lento, ma che ci aiuta a usare la ragione. Non ci convince di nulla, né ci mangia il cervello: ci fa usare la ragione secondo la sua natura. Se riprendi adesso Il senso religioso, vedrai che il tentativo che stiamo facendo insieme è di imparare a usare la ragione senza fare nessun passo che tu già non veda nella tua esperienza, nel reale. Non abbiamo bisogno di convincerci: abbiamo bisogno di accorgerci. È diverso. Perché non hai alcuna difficoltà ad accorgerti di ciò che ti sto dicendo, nella misura in cui te lo spiego e ti metto davanti i fatti: non sto cercando di convincerti di quello che non c’è o che non vedi, affinché tu mi dica di sì. Non ho bisogno di convincerti che in questa aula c’è la luce. È lo stesso: quella possibilità che adesso non ti viene in mente, la rende possibile soltanto Colui che sta dando la vita a te ora. È soltanto se accetti questo, che potrai rispondere all’urgenza della tua domanda.
Questa è la sfida che le circostanze, i fatti della vita, ci lanciano. E tu troverai risposta soltanto se accetti questa sfida, questa provocazione del reale, senza fermarti fino a quando non trovi una ragione adeguata. Se perdiamo questa occasione e se pensiamo che qualcuno ci possa risparmiare questo percorso, diventiamo meno uomini. Deve essere un’educazione. Non a immaginare ciò che non c’è, ma ad accorgerci di ciò che c’è.
Intervento. Volevo dire che cos’è accaduto a me. Quando ho saputo di Giovanni, mi chiedevo che cosa fare. Poi, arrivato all’obitorio, Feo mi ha detto le tue parole: «L’ultimo gesto di amicizia di Giovanni è stato metterci davanti all’eterno». Da lì, per me è iniziato un percorso. Ho iniziato a guardare le cose come date: la sua amicizia, i rapporti che ho, le cose da fare... Fino ad arrivare a dire, in modo non finto: «Io sono Tu che mi fai». Mi è venuto subito il desiderio di non perdere tempo. E quando sono tornato ad Agraria, mi ha impressionato vedere che tutti studiavano (ed era un venerdì: fino alle 19 ci saranno state venti persone). Sono, poi, andato a lezione col volantino, per un desiderio di dire: sto capendo che la realtà è questo, cioè è qualcosa che al fondo ha un Mistero buono. E quando sono andato dal professore tutto titubante (perché non viene meno l’essere titubante), è stato per me corrispondente, perché è stato come dire: «Io sono questo rapporto con Cristo». In questi giorni il dolore è grande, e anche alla mattina, per alzarsi, occorre una decisione. Oggi, però, andare a lezione e dare il volantino ai compagni di corso, è stato per dire questo. Venendo qui avevo una domanda: come posso essere come Giovanni, che ha dato tutto? Mi accorgo, però, che c’è già tutto: oggi, andando a lezione, non c’era bisogno dell’amico che con me desse il volantino, di un supplemento di certezza, come abbiamo detto tante volte. Ma io sono questo rapporto e lo dico al mondo. È questo che inizia a farmi percepire che davvero tutto è un bene.

CARRÓN. Che cosa può permettere che, dopo la morte di un amico, uno torni in Facoltà e trovi tutti che studiano? Sembra banale, assolutamente banale, un fatto semplice che si può dare per scontato. Ma è possibile spiegarlo senza che succeda qualcosa d’altro? Allora uno comincia a dire: «Io sono Tu che mi fai» in modo non finto. Quando uno ha bisogno di dire questo, vuol dire che tante volte l’ha detto in modo scontato. Incomincia a succedere qualcosa nel modo di vivere le cose. Accade qualcosa per cui tutto comincia a essere diverso, nuovo. Io sono questo rapporto: questo è l’avvenimento che succede. E che mi fa studiare in pace, anche in mezzo al dolore, mi fa dare il volantino al professore, mi fa entrare in aula, mi fa urgere tutto. Ma, proprio per questo dolore che mi urge, ho bisogno della memoria di Cristo per poterci stare davanti. Ho bisogno di usare la ragione senza ridurla.
Che cosa vuol dire la memoria di Cristo? Usare di nuovo la ragione secondo la sua natura! Cioè non ridurre la mia realtà, il mio io, allo stato d’animo. Se riducessi tutto allo stato d’animo, dopo qualche giorno non ce la farei più. E qualcuno potrebbe dire: «Questo sì che sente la morte di Giovanni...». Io vi assicuro, invece, che se rimaneste a questo livello, tra poco non ce la fareste più: avreste bisogno di dimenticare, per poter continuare a vivere. È soltanto chi non ha bisogno di dimenticare (anzi: ricordarsi gli urge la memoria di Cristo) che può stare davanti alla morte e può rimanere amico di Giovanni in un’altra modalità. Gli altri, volenti o nolenti, lo cancellerebbero dalla vita. Non per cattiveria, ma perché non riuscirebbero a starci davanti e dovrebbero dimenticare. E invece di stare davanti all’eterno, dovrebbero ritornare alla solita menzogna e ridurre la realtà ad apparenza.
Invece, ogni volta che fa male, ogni volta che sento la ferita, se è occasione di memoria, vediamo come Giovanni rimane amico. Più amico che mai. Perché niente come la morte di Giovanni ci ha fatto vivere davanti al vero, cioè davanti all’eterno. E questo giudica tutte le nostre amicizie, che tante volte, anziché aiutarci a vivere davanti all’eterno, ce lo fanno dimenticare, ci fanno distrarre dall’eterno. Ma che razza di amicizia è la nostra? È come se la morte di un amico ci mettesse alle strette: che razza di amicizia è la nostra, se non è per poter guardare questo? Se non siamo amici nella morte, non siamo amici neanche nella vita. Anche se non ci ferisce così tanto come una morte.

Intervento. In quest’ultimo periodo ho avuto a che fare spesso con la morte: un anno e mezzo fa è morto in un incidente un ragazzo che conoscevo dalle superiori. Questo mi aveva già provocato moltissimo. Circa un mese fa, poi, in un incidente sul lavoro è morto un altro mio amico, un adulto, che era anche mio maestro in ciò che studio, uno che mi ha insegnato molte cose. E adesso Giovanni, mio grandissimo amico. In questo anno e mezzo, soprattutto in questi ultimi giorni, sto iniziando a capire una cosa, sto iniziando a essere certo che tutti questi fatti sono collegati tra loro: è il Signore che mi sta chiedendo qualcosa. Il problema è che adesso avverto questa domanda, ma non capisco ancora che cosa mi sta chiedendo.

CARRÓN. Non ti preoccupare: quando Dio vuole qualcosa, te lo fa capire con tutta la chiarezza dell’universo. Calma, datti tempo! Aspetta e vedrai che il Signore ti darà tutti i segni di cui hai bisogno per capire.
Finiamo dicendo questo: non possiamo riempire il vuoto davanti alla morte con la nostra immaginazione. Che cosa sarà di Giovanni adesso? Come lo pensate? Per pensarlo, da dove partite? Diceva Gesù: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La vita eterna incomincia a essere un’esperienza nell’incontro cristiano, nella misura in cui ciascuno ha fatto esperienza dell’incontro cristiano. E se l’intensità di vita che l’incontro cristiano ha introdotto in ogni fibra dell’essere (diceva don Giussani: «Una febbre di vita»!), se questo è il primo “sapore” di che cos’è Cristo, immaginate come sarà il compimento! Allora smettete di pensare a Giovanni se non così. Perché, se no, riempiamo con la nostra immaginazione ciò che ignoriamo. Il Mistero è ignoto, ma noi di questo Mistero ignoto qualcosa sappiamo. Perché Cristo ce lo ha rivelato, e abbiamo cominciato a farne esperienza.
Per questo, l’unica modalità per non riempire questo ignoto con la nostra immaginazione e poi attribuirla al Mistero (che, quasi inevitabilmente, è il rischio in cui cadiamo se non stiamo attenti), consiste nell’aiutarci a guardare Giovanni a partire dall’esperienza che abbiamo fatto con Cristo. Perché Giovanni, adesso, vive il compimento di quella esperienza: vive più intensamente quella esperienza, vive il tutto di quell’esperienza, di quell’inizio. Ma è il compimento di ciò che lui già viveva qua! Non altro: è il compimento di quello. Allora la vita eterna non è la noia eterna, per cui alla fine potremmo pensare: «Poveretto, che disgraziato!». Forse Giovanni è più fortunato di noi. Anzi, senza forse: è il più fortunato di noi! Perciò oggi ci dice: «Guardate che la vita è questo». Con il suo vivere adesso questa pienezza, dice a tutti noi: «Guardate, amici, che la vita è questo! La vita è Cristo, ed è un guadagno il morire».
(da Tracce, dicembre 2011)