Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora

La Pagina Uno di "Tracce" di febbraio: la presentazione del libro di Luigi Giussani "All’origine della pretesa cristiana" (Rizzoli), 25 gennaio 2012. Teatro degli Arcimboldi di Milano e in collegamento via satellite in tutta Italia (PDF e EPUB)
Julián Carrón



Saluto ciascuno di voi, in particolare le personalità civili e religiose che partecipano a questo momento e i tanti amici qui presenti e collegati nelle diverse città. Ringrazio i rappresentanti dell’Editore Rizzoli, Paolo Zaninoni e Ottavio Di Brizzi.

Abbiamo scelto questa modalità per continuare insieme il cammino della «Scuola di comunità». Dopo Il senso religioso, affronteremo quest’anno All’origine della pretesa cristiana, che è il secondo dei tre volumi del “PerCorso” tracciato da don Giussani.

«È venuto un Uomo, un giovane Uomo, nato in un certo paese, in un certo posto del mondo geograficamente precisabile, Nazareth. Quando uno va in Terra Santa, in quel paesino lì, ed entra in quella casupola semioscura in cui c’è un’iscrizione con impressa la frase: “Verbum hic caro factum est” (“Il Mistero di Dio, qui, si è fatto carne”), gli vengono i brividi».
Il canto Et incarnatus est - della Grande Messa di Mozart - è «l’espressione più potente e più convincente, più semplice e più grande di un uomo che riconosce Cristo. La salvezza è una Presenza: questa è la sorgente della gioia e la sorgente della affettività del cuore cattolico di Mozart, del suo cuore amante di Cristo».
Et incarnatus est - dice don Giussani - «è canto allo stato puro, quando tutto il tendere dell’uomo si scioglie nella limpidezza originale, nella purezza assoluta dello sguardo che vede e riconosce. “Et incarnatus est”: è contemplazione e domanda al tempo stesso, fiotto di pace e di gioia che nasce dallo stupore del cuore quando è posto di fronte all’avverarsi della sua attesa, al miracolo del compimento della sua domanda. […]
Potessimo anche noi, come Mozart, contemplare con la stessa semplicità e intensità l’inizio nel mondo della storia della misericordia e del perdono, e abbeverarci alla sorgente che è il “sì” di Maria!
Questo canto bellissimo ci aiuta a raccoglierci in un silenzio grato, così che può nascere nel cuore, può spuntare nel cuore il fiore del “sì”. […] Così come fu per la Madonna, quella ragazza di Nazareth, davanti al Bambino che era uscito da lei: un rapporto senza confini le riempiva il cuore e il tempo.
Se l’intensità religiosa della musica di Mozart - una genialità che è dono dello Spirito - penetrasse nel nostro cuore, la nostra vita, con tutte le sue irrequietezze, contraddizioni e fatiche, sarebbe bella come la sua musica» (L. Giussani, «Il divino incarnato», in Spirto gentil. Un invito all’ascolto della grande musica guidati da Luigi Giussani, Bur, Milano 2011, pp. 54-55).
Che cosa possiamo fare di meglio, per incominciare questo gesto, che ascoltarlo, come contemplazione e come domanda?

Et incarnatus est*

*«Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est» («Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo», soprano Joo Cho, pianoforte Luigi Zanardi), W.A. Mozart, Grande Messa in do minore K.427. Vedi anche “Spirto Gentil”, Cd n. 24 (2002).


È difficile trovare un’altra espressione artistica che colga meglio dell’Et incarnatus est - per dirla con Eliot - quel «momento nel tempo e del tempo, / Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo, / Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato» (T.S. Eliot, Cori da “La Rocca” , Bur, Milano 2010, p. 99).
Davanti a questo avvenimento, Dio fatto carne, che esprime tutta la passione piena di tenerezza di Dio per l’uomo, non possiamo evitare di dire, col salmista: «Che è mai l’uomo, Signore, perché te ne ricordi? Che è mai il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (cfr. Sal 8,5). Niente: un fuscello, che un colpo di vento porta via. Eppure Tu sei diventato uomo per ognuno di noi. Chiunque ha un istante di semplicità e lascia entrare l’annuncio cristiano non può evitare lo stesso sobbalzo che ha sentito dentro di sé Elisabetta quando è stata visitata da Maria che portava nel grembo Gesù. «Appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le balzò nel grembo» (cfr. Lc 1,39).
È quello che capita anche a noi, oggi. A noi, poveracci come siamo, Dio fatto carne viene annunciato oggi. Non siamo più da soli con il nostro niente. In questo momento di confusione, in cui in tanti camminano a tentoni nel buio, a noi viene data la grazia di questa notizia. Chi non desidererebbe vivere ogni istante della sua vita sotto la pressione di questa commozione senza pari, generata dalla Sua presenza?
Ma è veramente possibile?

1. Una sfida per l’uomo di oggi
«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?» (cfr. F.M. Dostoevskij, I demoni; Taccuini per “I demoni” , Sansoni, Firenze 1958, p. 1011). Questa frase di Dostoevskij sintetizza la sfida davanti alla quale si trova la fede in Gesù Cristo oggi. Questa sfida non è generica, non pone la domanda se sia possibile in assoluto la fede in Cristo. L’aspetto decisivo della domanda dello scrittore russo sta nel suo riferirsi a un contesto ben preciso: l’epoca contemporanea. E ha come destinatario un tipo concreto di uomo: un individuo culturalmente formato, uno che non rinuncia a esercitare la sua ragione in tutto il suo potere, in tutta la sua esigenza di libertà, in tutta la sua capacità affettiva. Ossia, un uomo che non rinuncia a nulla della sua umanità. Un uomo che ha alle spalle una storia culturale, una impegnativa eredità, che è influenzato da un razionalismo pervasivo, da una spontanea fiducia nel metodo scientifico e da un sospetto verso tutto ciò che non si sottopone a una ragione come misura. Per un tipo umano con queste caratteristiche, è possibile credere oggi in ciò che Cristo ha detto di se stesso?
In altre parole, la fede ha qualche possibilità di attecchire, vale a dire di affascinare, di attrarre, di convincere gli uomini del nostro tempo?

Ma questa domanda non riguarda solo coloro che non hanno ancora incontrato Cristo, riguarda anche noi, per i quali, dopo tanti anni che Lo abbiamo incontrato, Cristo rimane lontano dal cuore, come ci ricordava don Giussani nel 1982: «Siete diventati grandi: vi siete assicurati una capacità umana nella vostra professione», ma «c’è come, possibile, una lontananza da Cristo (rispetto alla emozione di tanti anni fa, di certe circostanze di tanti anni fa, soprattutto). C’è come una lontananza da Cristo, salvo che in determinati momenti. Voglio dire: c’è una lontananza da Cristo, salvo quando vi mettete a pregare; c’è una lontananza da Cristo, salvo quando vi mettete, poniamo, a compiere delle opere in Suo nome, in nome della Chiesa o in nome del movimento. È come se Cristo fosse lontano dal cuore. Con il vecchio poeta del Risorgimento italiano si direbbe: “In tutt’altre faccende affaccendato”, il nostro cuore è come isolato, o, meglio, Cristo resta come isolato dal cuore, salvo che nei momenti di certe opere (un momento di preghiera o un momento di impegno, quando c’è un raduno generale, c’è da tenere una Scuola di comunità, eccetera).
Questa lontananza di Cristo dal cuore, salvo che la Sua presenza sembri operare in certi momenti, genera anche un’altra lontananza, che si rivela in un ultimo impaccio tra di noi - sto parlando anche di mariti e mogli -, in un ultimo impaccio vicendevole. […] La lontananza di Cristo dal cuore rende lontano l’ultimo aspetto del cuore dell’uno dall’ultimo aspetto del cuore dell’altro, salvo che nelle azioni comuni (c’è la casa da portare avanti, i figli da accudire, eccetera). C’è anche un rapporto, indubbiamente c’è il rapporto vicendevole, ma è solo in operazioni, in opere, in gesti comuni in cui ci si ritrovasse o vi ritrovaste. Ma quando vi ritrovate nell’azione comune, essa leggermente - poco o tanto -, rende ottuso l’orizzonte del vostro sguardo o del vostro sentire» (L. Giussani, «La familiarità con Cristo», 8 maggio 1982, in Tracce, n. 2/2007, p. 2).
Che questo non riguardi solo il passato, lo segnalava di recente un amico: «Avendo avuto incontri sia con comunità che personali, nell’ultimo periodo mi sono accorto di questo: “La realtà è positiva” è stato, di fatto, dalla Giornata di inizio anno, il “filo rosso” che poi è stato documentato anche con il volantino sulla crisi, come giudizio per tutti sulla situazione che viviamo. Ma rischia di essere vuoto, non tanto di comprensione, quanto di certezza esistenziale. A volte avverto una specie di disagio: c’è come un trionfalismo in quello che facciamo che fa da contraltare alla tragicità di un’esistenza senza speranza. Noi [tante volte] non siamo certi nel cammino che facciamo davanti alla realtà così come è. Siamo d’accordo con quel giudizio, abbiamo capito, ma non siamo convinti, non siamo veramente legati affettivamente alla verità della nostra vita». Basta osservare le reazioni di tanti fra noi davanti alla affermazione della positività della realtà per vedere la pertinenza di questo giudizio.
Tutti sappiamo bene quanta strada resta da fare per vincere la lontananza in cui teniamo l’avvenimento di Cristo presente. Per questo, la domanda che ci siamo appena fatti acquista per noi tutta la sua drammaticità: la fede ha una reale possibilità di vincere questa lontananza e di attecchire in noi?

In una conferenza tenuta nel 1996, l’allora cardinale Ratzinger rispondeva che la fede può ancora “avere successo”, «perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. […] Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 143). Con queste parole indicava, nello stesso tempo, la condizione necessaria: il cristianesimo ha bisogno di incontrare l’umano che vibra in ciascuno di noi per poter mostrare tutto il suo potenziale, tutta la sua verità.
Il libro che presentiamo è un tentativo di dispiegare questa impostazione, per rispondere a una ineludibile esigenza di ragionevolezza.
Don Giussani affronta la questione fin dalla prefazione: «All’origine della pretesa cristiana è il tentativo di definire l’origine della fede degli apostoli. In esso ho voluto esprimere la ragione per cui un uomo può credere a Cristo: la profonda corrispondenza umana e ragionevole delle sue esigenze con l’avvenimento dell’uomo Gesù di Nazaret. Ho cercato quindi di mostrare l’evidenza della ragionevolezza con cui ci si attacca a Cristo, e quindi si è condotti dall’esperienza dell’incontro con la sua umanità alla grande domanda circa la sua divinità. Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta. È la grande inversione di metodo che segna il passaggio dal senso religioso alla fede: non è più un ricercare pieno di incognite, ma la sorpresa di un fatto accaduto nella storia degli uomini» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. VI).
Per poter percepire la novità di questa impostazione occorre precisamente rendersi conto di questo: non è un ragionamento astratto ad allargare la ragione per permetterle di riconoscere Cristo, ma è la corrispondenza tra l’uomo e Cristo, che si realizza in un incontro reale, storico, nel presente; una corrispondenza nella quale consiste la ragionevolezza della fede stessa. È questo a rendere semplice il cammino della fede. Basta un incontro in cui poter sorprendere la corrispondenza. Ed è proprio quando questo incontro non accade - per la riduzione del cristianesimo a discorso, dottrina, o morale, da una parte, e la correlativa riduzione dell’umanità dell’uomo dall’altra - che tra l’uomo e Cristo si stabilisce una perfetta giustapposizione, si scava il solco di una profonda estraneità (è una parabola che dalla modernità giunge fino a noi): di una lontananza, appunto.
Con questa osservazione don Giussani ci mette in guardia contro il rischio più grande che possiamo correre nell’iniziare il lavoro di Scuola di comunità di questo anno. In cosa consiste il rischio? Per la stragrande maggioranza di noi, All’origine della pretesa cristiana è un libro conosciuto. Quindi la tentazione del già saputo è più presente che mai. E così possiamo soccombere facilmente alla riduzione del cristianesimo a “dottrina”. Di solito ci aspettiamo la novità dalla differenza, dal fare o leggere cose diverse dalle solite. Invece la novità non sta nella differenza (di lavoro o di marito e moglie), ma nell’accadere di quello che desideriamo. E non c’è avvenimento più grande di quello in cui noi troviamo la corrispondenza alle esigenze del nostro cuore. È soltanto il riaccadere di questo avvenimento che può vincere la lontananza di Cristo dal cuore.
Se Cristo non riaccade come avvenimento, più passa il tempo, più vince in noi quella «equivocità del “diventare grandi”» di cui parla Giussani: «Infatti - dice - quello che abbiamo ricevuto si sedimenta in modo tale che dà anche il suo frutto, però il cuore, proprio il cuore, nel senso letterale della parola, […] è come se fosse impacciato con Cristo, è come se non proseguisse una familiarità che si è fatta sentire, sia pure con la sentimentalità caratterizzante l’età, a un certo momento della nostra esistenza. C’è un impaccio che è lontananza Sua, che è come una non presenza Sua, un essere non determinante il cuore. Nelle azioni no, in quelle può essere determinante (andiamo in chiesa, “facciamo” il movimento, diciamo anche Compieta magari, facciamo la Scuola di comunità, ci impegniamo nella caritativa, andiamo a fare gruppi di qui e di là e ci lanciamo, ci catapultiamo anche in politica). Non manca nelle azioni: nelle azioni, in tante azioni, può essere determinante, ma nel cuore? Nel cuore no!» (L. Giussani, «La familiarità con Cristo», op. cit., pp. 2-3).
Allora la vera questione è: che cosa occorre perché sia il più trasparente possibile il riconoscimento della corrispondenza di Cristo al cuore, cioè perché l’esperienza cristiana si realizzi?

2. Una presa di coscienza tenera e appassionata di me stesso
Che don Giussani sia ben consapevole dei requisiti necessari perché avvenga questa corrispondenza emerge già dal primo paragrafo del libro, che per noi contiene tutta quanta la genialità metodologica della sua impostazione. «Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza [di ciò che sono] anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 3).
Perché l’uomo possa rendersi conto pienamente, dunque, di che cosa vuol dire Gesù Cristo, occorre che ciascuno di noi sia davanti a Lui con tutto il proprio umano. Senza questa umanità, senza questa coscienza attenta, tenera e appassionata di me stesso, non mi sarà possibile riconoscere Cristo. La ragione è molto semplice: Cristo si pone come risposta a ciò che sono io; perciò, senza coscienza di me stesso anche quello di Gesù Cristo finisce per diventare puro nome.
È difficile trovare una valorizzazione della persona maggiore di quella operata dal cristianesimo. Cristo non intende entrare di nascosto, quasi approfittando di una distrazione, nella vita della persona: Egli vuole entrare nella vita dell’uomo dalla porta principale, passando cioè attraverso la sua umanità, un umano pienamente consapevole, fatto di ragione e libertà. Cristo si sottopone alla verifica del criterio nativo dell’uomo: il cuore. Senza questo paragone non vi è esperienza cristiana, né il cristianesimo avrebbe alcuna possibilità di successo. La ragione l’ha identificata con chiarezza il teologo americano Reinhold Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone» (R. Niebuhr, Il destino e la storia, Bur, Milano 1999, p. 66).
Se l’uomo ha la struttura originale per riconoscere Cristo, qual è allora il problema? Quale difficoltà rende problematico questo riconoscimento? La questione è che la nostra struttura originale è spesso sepolta sotto il sedimento dell’influsso della società e della storia che riduce le nostre esigenze originali. Se non è risvegliato dal suo torpore, liberato dalla sua misura, da una versione adulterata o ridotta delle proprie esigenze indotta dal contesto, l’uomo sarà in varia misura ostacolato o frenato nel sorprendere la corrispondenza che gli consente di riconoscere Cristo.
Possiamo riconoscere anche in noi questa riduzione dall’impaccio che proviamo imbattendoci nel “decimo lebbroso” (cfr. Lc 17,12-19) o nella reazione di Cristo davanti alla esultanza dei discepoli per il loro successo missionario (cfr. Lc 10,17-20): anche noi ci accontentiamo della guarigione come gli altri nove lebbrosi o del successo come i discepoli. Non sentiamo il bisogno di altro. E così il cuore resta lontano da Cristo.
A questa situazione esistenziale dell’uomo, frutto anche di ragioni storiche, non può rispondere un cristianesimo ridotto a discorso, tanto meno a etica. Ma questa è anche la grande opportunità che la situazione attuale offre al cristianesimo: quella di rendersi consapevole che nessuna delle sue varianti ridotte può rispondere all’urgenza del presente dell’uomo. Perché per cogliere il valore di una personalità morale e religiosa, occorre che sia viva in noi una genialità umana, cioè la «apertura originale dell’animo; [...] un originale atteggiamento di disponibilità e di dipendenza, non di autosufficienza» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 100). E solo un cristianesimo che si proponga nella sua natura originale di avvenimento nella storia può essere in grado di suscitare quell’umano che permette all’uomo di riconoscerlo, perforando l’incrostazione che costantemente lo ricopre.

3. Il cristianesimo: un fatto
In un brano della sua Vita di Gesù, François Mauriac descrive il primo apparire sulla scena del mondo di quella presenza che - da subito - si è imposta come «problema» e che da allora ha percosso la storia fino a oggi: «Dopo quaranta giorni di digiuno e contemplazione, eccolo ritornato al luogo del battesimo. Sapeva in anticipo per quale incontro: “L’Agnello di Dio!” dice il profeta vedendolo avvicinarsi (e certo sottovoce...). Questa volta due dei suoi discepoli erano con lui. Guardarono Gesù, e quello sguardo bastò: lo seguirono fino al luogo dov’egli dimorava. L’uno dei due era Andrea, il fratello di Simone; l’altro Giovanni, figlio di Zebedeo: “Gesù, avendolo guardato, l’amò...”. Ciò che è scritto intorno al giovane ricco, che doveva allontanarsi triste, è qui sottinteso. Che fece Gesù per trattenerli? “Vedendo che lo seguivano, disse loro: ‘Che cercate?’. Ed essi risposero: ‘Rabbi, dove dimori?’. Ed egli: ‘Venite e vedete’. Essi andarono e videro dov’egli dimorava, e rimasero presso di lui quel giorno. Ora, era intorno le dieci ore.”» (F. Mauriac, Vita di Gesù, Oscar Mondadori, Milano 1974, p. 29).
Domandiamoci: come hanno potuto Giovanni e Andrea essere conquistati così di schianto, fino al punto di riconoscere di avere incontrato il Messia? «C’è un’apparente sproporzione tra la modalità semplicissima dell’accaduto e la certezza dei due. Se questo fatto è accaduto - dice don Giussani -, riconoscere quell’uomo, chi era quell’uomo, non fino in fondo e dettagliatamente, ma nel suo valore unico e imparagonabile (“divino”), doveva dunque essere facile. Perché era facile riconoscerlo? Per un’eccezionalità senza paragone» (L. Giussani -S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 10).
Che cosa significa «eccezionale»? Quando possiamo definire come «eccezionale» una cosa? «Quando corrisponde adeguatamente alle attese originali del cuore, per quanto confusa e nebulosa possa esserne la consapevolezza» (Ivi), come quando vediamo la bellezza eccezionale di un paesaggio di montagna, di una donna o di un gesto pieno di tenerezza e di carità: è facile riconoscerlo per la sua attrattiva vincente. È proprio tale eccezionalità che, accadendo, ridesta l’esperienza originale dell’uomo, per quanto confusa e nebulosa ne sia la consapevolezza, affinché egli, così desto, possa emettere un giudizio su quella stessa eccezionalità.

Come possiamo definire un fenomeno come quello descritto?
«Il cristianesimo è un avvenimento. Non esiste altra parola per indicarne la natura: non la parola legge, né le parole ideologia, concezione o progetto. Il cristianesimo non è una dottrina religiosa, un seguito di leggi morali, un complesso di riti. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento: tutto il resto è conseguenza». Per questo la parola “avvenimento” è decisiva: «Essa indica il metodo scelto e usato da Dio per salvare l’uomo: Dio si è fatto uomo nel seno di una ragazza di quindici-diciassette anni chiamata Maria, nel “ventre che fu albergo del nostro disiro”, come dice Dante. La modalità con cui Dio è entrato in rapporto con noi per salvarci è un avvenimento, non un pensiero o un sentimento religioso» (Ibidem, pp. 12-13).

Ma, attenzione, prima di procedere, voglio subito affrontare la tentazione alla quale noi siamo esposti. Almeno per la frequenza con cui noi l’abbiamo sentito dire da don Giussani, nessuno di noi negherebbe che il cristianesimo è un avvenimento. Ma spesso noi riduciamo l’avvenimento a qualcosa del passato - sia che si tratti dell’inizio della storia cristiana duemila anni fa, sia che si tratti del momento del nostro incontro personale -, quando non lo riduciamo semplicemente a una categoria astratta. Ma se viene ridotto a un fatto del passato oppure a una categoria, quello che resta del cristianesimo nel presente è solo l’etica. Come quando finisce l’avvenimento dell’amore tra due persone, restano solo le cose da fare, i compiti da realizzare. Il fascino è già alle spalle e la lontananza tra i due cresce.
Allora che cosa vuol dire che la natura del cristianesimo, così come l’innamorarsi, è avvenimento? Ci ha risposto don Giussani stesso con le parole del Volantone della scorsa Pasqua: «L’avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, dà contenuto al presente, rende possibile il presente. Ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso [fino ad essere affascinato], cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo». Se facciamo il paragone tra il modo in cui tante volte parliamo del cristianesimo e questa descrizione che ne dà don Giussani, possiamo misurare la lontananza che provoca in noi il fatto di darlo per scontato, come un già saputo, e possiamo vedere quanto siamo inconsapevoli della riduzione che operiamo facendo così. «Allora, perché quello che sappiamo - Cristo, tutto il discorso su Cristo - sia esperienza, occorre che sia un presente che ci provoca e percuote: è un presente come per Andrea e per Giovanni è stato un presente. Il cristianesimo, Cristo, è esattamente quello che fu per Andrea e Giovanni quando gli andavano dietro; immaginate quando si voltò, e come furono colpiti! E quando andarono a casa sua… È sempre così fino adesso, fino in questo momento!» (Comunione e Liberazione, Volantone di Pasqua 2011).
Senza questa contemporaneità non c’è sviluppo, e l’avvenimento si allontana nel passato, precipitando sempre più indietro nel tempo. Così, gli anni che passano, invece di colmare il fossato che allontana il cuore da Cristo, lo allargano.
Ben diversa è l’esperienza che ci ha testimoniato don Giussani, tanto più quanto più gli anni della sua vita passavano: «L’imbattersi in una presenza di umanità diversa viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio: un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale - l’impatto con una diversità umana, lo stupore che ne nasce - è destinato a essere il fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo. Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo. O si rinnova, oppure nulla procede, e subito si teorizza l’avvenimento accaduto [diventa una categoria], e si brancica alla ricerca di appoggi sostitutivi di Ciò che è veramente all’origine della diversità. Il fattore originante è, permanentemente, l’impatto con una realtà umana diversa. Se dunque non riaccade e si rinnova quello che è avvenuto in principio, non si realizza vera continuità: se uno non vive ora l’impatto con una realtà umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora. Solo se l’avvenimento riaccade ora, si illumina e si approfondisce l’avvenimento iniziale e si stabilisce così una continuità, uno sviluppo» (L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», Tracce, n. 10/2008, p. 2).
Conclude don Giussani: «La continuità con quello che è avvenuto al principio si avvera perciò solo attraverso la grazia di un impatto sempre nuovo e stupito come se fosse la prima volta. Altrimenti, in luogo di tale stupore, dominano i pensieri che la propria evoluzione culturale rende capaci di organizzare, le critiche che la propria sensibilità formula a quello che si è vissuto e che si vede vivere, l’alternativa che si pretenderebbe imporre, eccetera» (Ivi).

Perciò la modalità scelta dal Mistero per raggiungerci - un fatto, un avvenimento, non i nostri pensieri o i nostri sentimenti - è la più adatta alla situazione storica dell’uomo ed è l’unica in grado di vincere la nostra lontananza da Lui: «Per farsi riconoscere, Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma umana, così che il pensiero, l’immaginatività e l’affettività dell’uomo [la nostra umanità] sono stati come “bloccati”, calamitati da Lui. L’avvenimento cristiano ha la forma di un “incontro”: un incontro umano nella realtà banale di tutti i giorni», in grado di calamitare tutta la nostra affezione e tutta la nostra libertà. L’avvenimento cristiano non attende che l’uomo cambi, non richiede preparazioni né precondizioni: esso irrompe e accade, come l’innamorarsi. La Sua presenza, infatti, proprio per la sua eccezionalità, cioè per la sua capacità unica di corrispondenza alle esigenze originali del cuore, è in grado di ridestare tali esigenze secondo tutta la loro portata, tante volte sepolta sotto mille sedimenti, e di spalancare tutta la ragione dell’uomo calamitando tutta la sua affettività. Davanti alla presenza della risposta la domanda si libera in tutta la sua originale, sterminata profondità. «Ciò che caratterizza il fenomeno dell’incontro è una differenza qualitativa, una percepibile differenza di vita. L’incontro è cioè l’imbattersi in una diversità che attrae in quanto corrisponde al cuore, passa perciò attraverso il paragone e il giudizio della ragione, e suscita la libertà nella sua affettività» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., pp. 24-25).
Questo è esattamente ciò che don Giussani chiama capovolgimento di metodo religioso: «Nell’ipotesi che il mistero sia penetrato nell’esistenza dell’uomo parlandogli in termini umani, il rapporto uomo-destino non sarà più basato su sforzo umano, come costruzione e immaginazione, su uno studio volto a una cosa lontana, enigmatica, tensione di attesa verso un assente. Sarà invece l’imbattersi in un presente. Se Dio avesse manifestato nella storia umana una sua volontà particolare, avesse tracciato una sua strada per raggiungerlo, il problema centrale del fenomeno religioso non sarebbe più il tentativo, che pure esprime la più grande dignità dell’uomo, di “fingersi” il dio: il problema starebbe tutto nel gesto puro della libertà che accetti o rifiuti». Ecco, dunque, in che cosa consiste il capovolgimento di metodo: «Non è più centrale lo sforzo di una intelligenza e di una volontà costruttiva, di una faticata fantasia, di un complicato moralismo: ma la semplicità di un riconoscimento; un atteggiamento analogo a chi, vedendo arrivare un amico, lo individua tra gli altri e lo saluta» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 35).
Questo segna l’inizio di una avventura della conoscenza: «Quando si incontra una persona importante per la propria vita, c’è sempre un primo momento in cui lo si presente; qualcosa dentro di noi è messo alle strette dall’evidenza di un riconoscimento ineludibile: “ecco, è lui”, “ecco, è lei”. Ma solo lo spazio dato al ripetersi di questa documentazione carica l’impressione di peso esistenziale. Solo cioè la convivenza la fa entrare sempre più radicalmente e profondamente in noi, fino a che, a un certo punto, diviene certezza. […] Dalla convivenza [dei primi discepoli con Gesù] deriverà una conferma di quella eccezionalità, di quella diversità che fin dal primo momento li aveva percossi. Con la convivenza tale conferma si ingrandisce». Per don Giussani «è talmente vero che la conoscenza di un oggetto richiede spazio e tempo, che a maggior ragione questa legge non può essere smentita da un oggetto che si pretende unico. Anche coloro che furono i primi a incontrare quella unicità hanno dovuto seguire questa strada» (Ibidem, pp. 58-59).
Con la consueta genialità, don Giussani ci fa presenti due attenzioni di metodo che sono preziosissime per raggiungere una certezza esistenziale sul Mistero entrato a far parte della storia: la prima si riferisce al fatto che «io sono tanto più abilitato ad aver certezza su di un altro, quanto più sto attento alla sua vita, cioè condivido la sua vita. La necessaria sintonia con l’oggetto che si vuole arrivare a conoscere è una disposizione viva che si costruisce nel tempo, nella convivenza. Ad esempio, nel Vangelo, ha potuto capire che di quell’Uomo bisognava avere fiducia, chi gli andò dietro e condivise la sua vita, non la folla che andava a farsi guarire». Il secondo elemento che don Giussani ci invita a considerare riguarda il fatto che, «quanto più uno è potentemente uomo, tanto più è capace di raggiungere certezze sull’altro da pochi indizi. Questo è propriamente il genio dell’umano. Lo sottolinea Rousselot, in questo bel testo: “Più l’intelligenza è agile e penetrante e più le basta un indizio tenue per indurre con certezza una conclusione. [...] È per questo che un’incontestabile tradizione che risale al Vangelo stesso loda coloro che non hanno bisogno di prodigi per credere. Non li si loda affatto per aver creduto senza ragioni: ciò sarebbe deplorevole; ma si vede in essi delle anime veramente illuminate e capaci, attraverso un minimo indizio, di cogliere una grande verità”. Anche questa intelligenza del minimo indizio, benché l’uomo a un livello fondamentale ne disponga naturalmente per sopravvivere, ha bisogno di tempo e spazio, perché arrivi ad essere evoluta. È questa dote che la “pretesa di Gesù” richiede per poter essere compresa. Il moltiplicarsi dei segni riguardo alla sua persona conduce alla ragionevole conclusione che di Lui mi posso fidare» (Ibidem, pp. 49-50). Sono stati proprio i segni, apparsi nella convivenza con Lui, a far scattare la domanda: «Chi è costui?». A questa domanda non riuscivano a trovare una risposta più adeguata che quella offerta da Lui stesso.
Quest’ultima osservazione ci introduce al grande tema della fede. Infatti, «l’atteggiamento di chi è colpito dall’avvenimento cristiano, lo riconosce e vi aderisce, si chiama “fede”. La posizione in cui noi ci troviamo di fronte all’avvenimento di Cristo è identica a quella di Zaccheo di fronte a quell’Uomo che si è fermato sotto la pianta su cui egli era salito e gli ha detto: “Scendi in fretta, vengo a casa tua” [immaginate come si deve essere sentito guardato]. È la stessa posizione della vedova, il cui unico figlio era morto, che si è sentita dire da Gesù [con tutta la tenerezza con cui la guardava], in un modo che a noi appare così irrazionale: “Donna, non piangere!” - è assurdo, infatti, dire a una madre cui è morto l’unico figlio: “Donna, non piangere!” -. È stata per loro ed è anche per noi l’esperienza della presenza di qualcosa di radicalmente diverso dalle nostre immagini e al tempo stesso di totalmente e originalmente corrispondente alle aspettative profonde della nostra persona. […] Avere la sincerità di riconoscere, la semplicità di accettare e l’affezione di attaccarsi a una tale Presenza, questa è la fede. […] La fede è essenzialmente riconoscere la diversità di una Presenza, riconoscere una Presenza eccezionale, divina. L’eccezionale non avviene normalmente; così, quando avviene, uno dice: “È un’altra cosa! Sono di fronte a un potere sovraumano!”. Chissà quante volte la Samaritana avrà avuto sete dell’atteggiamento con cui Cristo l’ha trattata in quell’istante [e come l’avrà cercato inconsapevolmente in tutti i mariti che ha avuto], senza mai accorgersene prima; quando è accaduto, l’ha subito riconosciuto» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., p. 28-31).
Una fede così concepita è quanto di più lontano ci sia da un “credere” estraneo all’umano: essa implica, infatti, un percorso di conoscenza che coinvolge ragione, affezione, libertà davanti a un fatto senza paragoni! Per questo «la fede appartiene all’avvenimento perché, in quanto riconoscimento amoroso della presenza di qualcosa di eccezionale, è un dono, è una grazia. Come Cristo si dà a me in un avvenimento presente, così vivifica in me la capacità di afferrarlo e di riconoscerlo nella sua eccezionalità. Così la mia libertà accetta quell’avvenimento, accetta di riconoscerlo» (Ibidem, p. 31).
Ma come posso sapere che quello a cui aderisce la fede è vero, che è reale?

4. Una nuova umanità: verifica della fede cristiana
Che cosa succede quando mi accade l’avvenimento cristiano? La fioritura dell’umano: «Il cristianesimo è un avvenimento in cui l’io si imbatte e che scopre essergli “consanguineo”, è un fatto che rivela l’io a se stesso» (Ibidem, p. 13). «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo». Questa frase del retore romano Mario Vittorino esprime bene quel che avviene quando la fede è un’esperienza reale. In questa esaltazione dell’umano risiede tutta la ragionevolezza della fede cristiana.
L’avvenimento di Cristo riconosciuto (fede) fa vivere tutto in modo diverso. E proprio questa modalità nuova, «sovversiva e sorprendente» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978) , Bur, Milano 2006, p. 330) - come diceva don Giussani -, di vivere il quotidiano diventa la verifica della verità dell’incontro fatto: Cristo esalta la ragione, Cristo esalta l’affezione, Cristo esalta la libertà! «Qual è la ragione che ha la fede? La ragione che ha la fede è che essa realizza la mia umanità con le sue esigenze, muta in meglio, fa camminare la mia umanità» (Ibidem, p. 359), esalta tutto il mio umano. E chi non desidererebbe per sé una simile esaltazione?
Siamo insieme in questa avventura, per sostenerci l’un l’altro. Perché l’esperienza in cui siamo stati coinvolti non si fossilizzi in dottrina, il nostro sostegno non può avere altra logica, lungo questo anno, che quella della testimonianza. Ma questo non cambia il livello totalmente e definitivamente personale della vicenda: alla pretesa cristiana posso rispondere solo io davanti al Signore. Il cristianesimo - insiste don Giussani - «avviene in comunione, ma si gioca tutto nella libertà della persona» (Ibidem, p. 327). «Tutta la questione sta nella fede reale della persona. [...] Di conseguenza, l’unico e drammatico problema è la fede personale, la fede come risposta alla propria vicenda umana; questo è l’unico e drammatico problema di ogni giorno e di ogni ora perché la fede è una sfida alla libertà; non c’è niente di più dato, di più donato della fede e non c’è niente di meno automatico di essa» (L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, pp. 162-163).

L’iniziativa di Cristo nella nostra vita, il suo avvenimento, suscita e richiede la nostra libertà, la sfida come nient’altro, all’inizio e in ogni momento del cammino. Don Giussani ce lo dice con chiarezza: «Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all’umana libertà o per eliminare l’umana prova – condizione esistenziale della libertà –. Egli è venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano, invece di sciogliersi, se non sono salvati determinati valori fondamentali. Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore), il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla religiosità nel tentativo della propria soluzione (“Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”)» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 124): il centuplo in termini di affezione, di ragione e di liberazione è la ragionevolezza in atto della fede, e costituisce il superamento di ogni giustapposizione tra la divinità di Cristo e la mia umanità, tra il mio cuore e Cristo.
In questo modo Cristo si sottopone alla verifica del nostro cuore: non ci chiede di credergli “a priori”. Per questo la “pretesa cristiana” è la sfida più imponente davanti alla quale un uomo si possa trovare, perché mobilita tutte le risorse che si hanno a disposizione - ragione, affezione e libertà - per compiere una verifica. Nessuno può prendere il nostro posto, neanche Cristo lo ha fatto: «La fede non può barare, non può dirti: “È così”, ottenendo il tuo assenso nudo e crudo gratuitamente. No! La fede non può barare perché è in qualche modo legata alla tua esperienza: in fondo è come se essa dovesse apparire al tribunale dove tu sei giudice attraverso la tua esperienza. Però anche tu non puoi barare, perché per poterla giudicare devi usarla, per potere vedere se trasforma la vita devi viverla sul serio; e non una fede come la interpreti tu, ma la fede come ti è stata tramandata, la fede autentica. Per questo il nostro concetto di fede ha un nesso immediato con l’ora della giornata, con la pratica ordinaria della nostra vita. […] Se tu, innamorandoti della ragazza, oppure avendo vissuto parecchie volte l’esperienza dell’innamoramento, non hai mai percepito in che modo la fede cambia quel rapporto, non ti sei mai sorpreso a dire: “Guarda la fede, illuminando questo mio tentativo di rapporto, come lo cambia, come lo cambia in meglio!”; se tu non hai mai potuto dire una cosa del genere (e, invece che la ragazza, potete mettere qualunque altra cosa: il padre, la madre, lo studio, il lavoro, le circostanze, eccetera), se tu non hai mai potuto dire: “Guarda la fede come rende più umano il mio vivere”, se tu non hai mai potuto dire questo, la fede non diventerà mai convinzione e non diventerà mai costruttiva, non genererà mai nulla, perché non ha toccato il tuo io profondo» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987) , Bur, Milano 2010, pp. 300-301).

Un anno fa, alla presentazione de Il senso religioso, ci eravamo proposti di vivere il senso religioso come verifica della fede, cercando di rispondere alla preoccupazione di don Giussani: «Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più come dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé» (L. Giussani, «La coscienza religiosa dell’uomo moderno», pro manuscripto, Centro Culturale Jacques Maritain, Chieti, 21 novembre 1985, p.15).
Analogamente oggi ci proponiamo di mantenerci entro la medesima prospettiva della verifica affrontando All’origine della pretesa cristiana. Ma che cosa significa? Qual è la verifica che Cristo, come avvenimento presente, è entrato nella nostra vita? Il compiersi dell’umano, il centuplo di ragione, affezione, libertà, abbiamo detto: questo resta l’essenziale e irrinunciabile verifica della ragionevolezza della fede, della verità della proposta cristiana, l’evidenza della sua credibilità. Ma il cuore di tale verifica è, attraverso il cambiamento, l’incremento della fede stessa, del riconoscimento amoroso della Sua presenza. «La Tua presenza vale più della vita». Tornare a cercarLo, come ha fatto il decimo lebbroso, vale più della guarigione; essere scelto, come è accaduto ai discepoli, vale più del successo! Il culmine della verifica è il sorgere di una attesa, di una conoscenza amorosa che cresce con il crescere dell’esperienza della corrispondenza, è una affezione che abbraccia tutte le altre affezioni.
Al cuore del centuplo sperimentato, domina l’approfondirsi del rapporto con Cristo: una familiarità, una tensione ad affermarlo, una facilità nel riconoscerlo («Ma è il Signore!», diceva san Giovanni). Il cambiamento più profondo è la fede stessa. Nell’incontro continuo e quotidiano con la Sua presenza reale trova risposta e al tempo stesso si esalta e si amplifica la nostra domanda, la nostra sete infinita, e dunque diviene più facile, in un certo senso più “inevitabile”, il riconoscerLo come l’unico in grado di rispondervi. Solo così può essere finalmente vinta la lontananza del cuore da Cristo.
Il senso della strada di quest’anno potrebbe essere sintetizzato con una frase di san Paolo: «Mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che già sono stato afferrato da Cristo» (cfr. Fil 3,12). Ciascuno di noi è stato afferrato da Cristo. Quanto più uno è stato afferrato, tanto più è proteso nella corsa per afferrarLo ancora. Ciò che si persegue non è più in ultima istanza nemmeno il cambiamento, cioè una nostra misura del centuplo, ma la Sua presenza, il rapporto con Lui, come accade in ogni rapporto amoroso pienamente umano: niente soddisfa se non la presenza della persona amata. Questo pone nel mondo una figura d’uomo irriducibile, che non si accontenta di alcun obiettivo “intermedio”, di alcuna guarigione o successo, sempre in corsa, attratto dalla Sua presenza, e perciò libero attore della storia, ricostruttore indomito di case distrutte. E questo potrà essere il nostro contributo alla società.

Per il nostro cammino don Giussani ci ha sempre raccomandato un gesto, che sintetizza tutto il contenuto dell’avvenimento cristiano: l’Angelus. Domandiamo che riaccada in noi sempre di più ogni volta che lo compiamo. Sarà un chiaro segno del nostro camminare.

Angelus

Ringrazio tutti per l’ascolto e la partecipazione.