L'autocoscienza, il punto della riscossa

La Pagina Uno di "Tracce" di aprile: appunti dall'Assemblea con i Responsabili di Comunione e Liberazione in Italia. Pacengo di Lazise - Verona, 4 marzo 2012 (PDF e EPUB)
Julián Carrón

Quale aiuto riceveremmo ogni mattina per affrontare le difficoltà e le sfide che abbiamo davanti, se fossimo con tutto il nostro io, con tutto il nostro bisogno, con tutta la consapevolezza del dramma, qualunque fosse, davanti alla preghiera che ci ha appena fatto recitare la Chiesa! Sarebbe già la prima vittoria sul nostro smarrimento, di qualunque natura fosse: «Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce. / Perciò non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare. / Fremano, si gonfino le sue acque, tremino i monti per i suoi flutti. / Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell’Altissimo. / Dio sta in essa: non potrà vacillare; la soccorrerà Dio, prima del mattino. [...] / Il Signore degli eserciti è con noi, nostro rifugio è il Dio di Giacobbe» («Salmo 45 delle Lodi della domenica», in Il libro delle ore, Jaca Book, Milano 2006, pp. 52-53).
Che esperienza deve vivere un uomo per dire questo! Non è che gli venga risparmiato qualcosa della vita, non è che non veda tremare tutto, ma che razza di consistenza dà alla vita questa consapevolezza, per potere sfidare tutto con questa certezza: «Dio è per noi rifugio e forza...».
È la stessa cosa che ci dice don Giussani in un testo che, per caso, ho trovato di recente: «Quando infatti la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore, aizzando le già naturali incertezze...». Prima di continuare a leggere mi piacerebbe sapere come finiremmo noi la frase: davanti a una simile situazione a che cosa ci appelleremmo, che cosa ci viene in mente, dove metteremmo la consistenza, dove troveremmo un aiuto? Di nuovo don Giussani ci stupisce: quando questo succede, «allora è venuto il tempo della persona» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», a cura di L. Cioni, Litterae Communionis CL, n. 1/1977, p. 11). E che cosa è la persona? Dov’è la sua consistenza? «Ciò che urge affinché la persona sia, affinché il soggetto umano abbia vigore in questa situazione in cui tutto è strappato dal tronco per farne foglie secche è l’autocoscienza, una percezione chiara ed amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino e dunque capace di affezione a sé vera, liberata dall’ottusità istintiva dell’amor proprio. Se smarriamo questa identità nulla ci giova» (Ibidem, p. 12).
Don Giussani esplicita come emerge questa autocoscienza: «Troviamo la legge dell’autocoscienza, analogicamente, dentro l’esperienza psicologica dell’uomo: si riconosce e si ama la propria identità riconoscendo ed amando un altro. Nella storia psicologica di una persona, sorgente della capacità affettiva è una persona così riconosciuta da essere accolta e ospitata. Per il bambino questa presenza è quella della madre, tanto che, se manca questo, la sorgente affettiva rimane arida. Ma ad un certo punto questo segno naturale non basta più, perché il soggetto si è evoluto verso la giovinezza che si arruffa e mostra le caratteristiche dell’assenza di affezione: nella giovinezza confusa, smarrita, scomposta e pretenziosa, è venuto il momento dell’Altro [con la A maiuscola], vero, permanente, di cui si è costituiti, della presenza inesorabile e senza volto, ineffabile [misterioso]. La giovinezza è il tempo del Tu [con la maiuscola] in cui il cuore affonda [...] come in un abisso, è il tempo di Dio». Allora è il contenuto di questa autocoscienza che rende la nostra presenza consistente, la nostra persona consistente.

Qual è il contenuto di questa autocoscienza, qual era il contenuto dell’autocoscienza del salmista? Questa presenza del Tu è la presenza «che deve essere riconosciuta, accolta ed amata; altrimenti l’identità scompare [...]. È nella giovinezza che sorge la drammaticità della vita; [perché] la drammaticità
della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante». Per questo «il fenomeno che permette alla personalità di esprimersi è l’iniziativa». Quale tipo di iniziativa? «L’iniziativa che documenta l’inizio di una identità cristiana vera [...]: il desiderio della memoria di Cristo, il desiderio della consapevolezza di Lui, della Sua presenza» (Ivi). È questa lotta che occorre tra di noi, in noi, in ciascuno di noi: se mettiamo la nostra consistenza in qualcosa di creato da noi, in un’affermazione ultima di noi stessi, di un’immagine nostra, di un progetto nostro, di un tentativo nostro, con tutta la sua inconsistenza, o nel riconoscimento di questa Presenza. Non ci sono alternative, e più la vita va avanti, più uno decide, più uno si trova in una posizione o nell’altra.
«Avere il coraggio di affermare che il problema fondamentale è rendere abituale il desiderio del Suo ricordo, [della Sua memoria,] la coscienza della Sua Presenza non può non giungere a noi come la pretesa di qualcosa di astratto [come centra la questione!], che si aggiunge o che si sovrappone ai problemi avvertiti come più pressanti e concreti ». Infatti qui sta la nostra resistenza. Per questo, «il desiderio di ricordo di Cristo matura come storia in noi, cresce non automaticamente ma, come cresce ogni nostra capacità, seguendo qualcuno». E siccome «il progetto della nostra maturità non lo possiamo avere noi, così non possiamo scegliere noi il maestro, dobbiamo solo riconoscerlo. Il maestro da seguire ce lo ha dato il Signore, ce lo ha collocato il Signore dentro la strada su cui ci ha messo, sulla via che stiamo percorrendo. Scegliere il maestro noi stessi vorrebbe dire scegliere qualcuno che ci fa comodo, scegliere qualcuno che risponde al nostro gusto, al nostro desiderio di veder assecondato il nostro progetto. Seguire vuol dire immedesimarsi con i criteri del maestro, con i suoi valori, con ciò che ci comunica, non legarsi alla persona che in sé è effimera. In questa sequela si nasconde e vive la sequela di Cristo. Non l’attaccamento alla persona, ma la sequela a Cristo è la ragione della sequela tra noi. A questa magisterialità - conclude don Giussani - deve tendere l’amicizia tra noi, poiché vero amico è colui che, nella discrezione e nel rispetto, aiuta l’altro verso il suo destino» (Ivi).

Questa è la decisione che ciascuno deve prendere, e la richiesta di avvio della causa di canonizzazione di don Giussani è una nuova occasione, decisiva, che ci sfida nel presente: vogliamo seguire questo, vogliamo seguire quello che don Giussani ci ha proposto, siamo disponibili a quello che abbiamo appena ascoltato, cioè a fare un cammino dove noi, seguendolo, ci immedesimiamo con i criteri suoi? Perché quando vediamo questo accadere, nel tentativo che stiamo facendo, osserviamo - come la giornata di ieri ha documentato palesemente - l’emergere di un soggetto nuovo, che diventa una presenza. Tutta la giornata di ieri, le due assemblee, è stata la documentazione di questa presenza secondo tutte le diverse modalità con cui è apparsa nei tanti che hanno parlato e nei dialoghi fra di voi o tra di noi e con coloro che non sono potuti intervenire. E perché? Perché questa ricchezza di presenza? Soltanto per la certezza di quello che ha appena detto don Giussani, che per tante persone diventa sempre di più l’autocoscienza che consente loro di stare nel reale libere, libere dalle circostanze
e nelle circostanze, non fuori dalle circostanze, ma negli ambienti, libere anche dagli attacchi (perché l’unica cosa che non è apparsa ieri è la pesantezza per le accuse, non sono quasi apparsi segni di questo); libere, quindi, dalla dipendenza dal potere, qualunque sia la modalità in cui si esprime. Mi stupisce che questa certezza non coincide e non dipende dall’avere in mano un potere, perché il Signore può non darlo. La storia del popolo d’Israele è bellissima da questo punto di vista, perché nell’antichità la divinità e il potere erano così legati che quando un popolo perdeva il potere questo segnava anche la fine della divinità, tranne una eccezione: il popolo d’Israele. Il Dio
d’Israele può permettere che il suo popolo sia sconfitto, può mandarlo in esilio e tuttavia continuare a essere il suo Dio. Il Dio d’Israele e la consistenza del popolo non sono legati ad alcun potere, anzi, Dio può consentirne la perdita per purificare il popolo, come dicono i profeti, perché Israele acquisti una sua consistenza al di là di qualsiasi evento storico. Perché Dio vuole generare una creatura, un soggetto talmente nuovo, con una tale consistenza che qualsiasi siano i giri della storia possa rimanere, avendo una roccia su cui poggiare. Qual è questa roccia? Qual è il contenuto di questa autocoscienza che diventa la roccia, se non Lui? E non soltanto Dio non lo ha risparmiato al Suo popolo, ma neanche a Suo Figlio: può ferire il pastore e le pecore si disperdono, ma per riprenderle di nuovo, per la vittoria definitiva di Cristo. Perciò capisco bene perché don Giussani dice che in questo momento è venuto il tempo della persona; chiede infatti a ciascuno di noi, a te, a me: dov’è la tua consistenza? Dove la poni? Se noi non siamo liberi dalle circostanze, faremo parte del problema, non della soluzione.
Invece vediamo che, proprio in questo tornante della storia in cui tanti sono smarriti, possiamo - pur zoppicando, con tutti i nostri limiti che conosciamo benissimo - essere una presenza, che tanti riconoscono e a cui si rivolgono, come accadeva al popolo d’Israele, quando le persone volevano attaccarsi al suo mantello per camminare con esso, non perché Israele avesse alcun potere, ma perché aveva quello che consente di vivere la vita. E
proprio una presenza così, non dipendente da niente se non da Lui, ci rende aperti al bisogno, come abbiamo visto, qualsiasi sia la natura di questo bisogno, da quello dei futuri insegnanti a quello di chi ha perso il lavoro, non ha speranza o vive nella crisi. Questo dimostra qual è la natura del bisogno di fronte al quale ci troviamo a vivere, che arriva fino al bisogno di una speranza per continuare a vivere. Per questo soltanto se noi facciamo questa esperienza, possiamo trovare una risposta al nostro bisogno, e quindi possiamo porre nella società una risposta al bisogno degli altri, cioè un luogo dove il nulla sia vinto, una compagnia che sia vera compagnia, un’amicizia che sia vera amicizia al destino.

Solo una comunità così è incidente nella storia, perché - come diceva Giussani - quando «la realtà della fede investe l’uomo», investe «tutte le espressioni della sua realtà personale, [...] nel senso che investe la totalità della persona, quindi muta il soggetto» (L. Giussani, «La fede è chiarezza, coerenza e (anche) grazia», intervista a cura di F. Dante, La nostra assemblea, Comunità di S. Egidio, n. 9-10 gennaio 1978), e quindi qualifica l’azione di questo soggetto nella storia. Questa è la prima questione, il dramma davanti al quale è ciascuno di noi.
«In secondo luogo la fede vissuta, e perciò una comunionalità ecclesiale, vissuta là dove l’uomo vive, nell’ambiente, [...] perché l’ambiente per noi è la realtà della vita della persona in quanto investita e coinvolta e tentativamente utilizzata ai propri fini dal potere sociale [...]. Una comunionalità vissuta nel proprio ambiente realizza una presenza che se è reale, cioè una presenza vissuta, non può non percepirsi, sentirsi e volersi immersa nei problemi che costituiscono il tessuto della vita dell’ambiente; perché un ambiente umano è intessuto di problemi. In tal senso c’è un’inevitabile incidenza politica realizzata dalla pura presenza di un fatto cristiano, o anche di una persona cristiana. Dico spesso - continua don Giussani - che la comunionalità è una dimensione di una persona, non necessariamente una aggregazione hic et nunc di individui. [...] La comunionalità, se è dimensione della persona, è essenziale alla presenza cristiana dovunque la persona sia; perciò se è da sola vivrà questa coscienza come aspetto e contesto del modo con cui percepisce se stessa e la propria responsabilità, se ce ne sono altre, espliciterà questa comunionalità nell’unità fraterna con queste» (Ivi), ma ogni persona che vive questa consapevolezza ha la comunione dentro l’autocoscienza di sé, esprime questa comunione come coscienza di sé.
Pertanto, quando viviamo questa autocoscienza nel reale, nell’ambiente, come abbiamo visto negli interventi di ieri, noi diventiamo un fattore della vita sociale, e questo è il livello che tocca a noi, che tocca alla comunità cristiana, cioè a noi come presenza del movimento nel reale. C’è poi, «nell’accezione più stretta, politica, [...] il tentativo di immaginare, di realizzare strutture sociali, strutture della convivenza, più giuste, che esprimano di più
l’umano»: a questo livello politico in senso stretto corrisponde la responsabilità dell’individuo che decide vocazionalmente di entrare in politica. «Il nostro compito [di comunità cristiana] è quello di formare alla fede delle persone, attraverso una vita di comunionalità vissuta, che [...] non può non impegnarsi anche sui problemi dell’ambiente» (Ivi).
Tornare a casa dopo questi giorni, dopo quello che abbiamo visto, con questa consapevolezza è ciò che ci renderà sempre più presenti, nella misura in cui crescerà l’autocoscienza, cioè la potenza della persona dal di dentro di un’appartenenza a Cristo nella Chiesa, nel movimento. Come dice Giussani, quando cresce l’autocoscienza che poggia sull’unico fondamento che resiste a qualsiasi circostanza, noi acquistiamo quella consistenza che ci consente di stare nel reale.
La nostra amicizia è l’aiuto a crescere in questa autocoscienza, perché senza di questo noi non potremo dare alcun contributo, e finiremmo travolti dal torrente della confusione, col potere o senza il potere nelle nostre mani.