Don Julián Carrón.

La libertà, sfida cruciale per la nostra fede

«La questione oggi è come rendere attraente la vita cristiana in un mondo in cui il valore supremo è la libertà». Intervista a don Julián Carrón alla rivista della San Paolo: «La fede, infatti, non si comunica per costrizione, ma per “attrazione”»
Gerolamo Fazzini

«La questione cruciale oggi è come rendere attraente la vita cristiana in un mondo in cui il valore supremo è la libertà. La fede, infatti, non si comunica per costrizione, ma per “attrazione”. Come continua a dire il Papa».
Don Julián Carrón è alla guida di Comunione e Liberazione dal 2005, designato da don Luigi Giussani a succedergli pochi mesi prima della morte del fondatore. Da allora il sacerdote spagnolo sta vivendo la complessa e affascinante avventura di condurre il movimento alla riscoperta del suo carisma originario, in una fase storica travagliata, che l’ha visto, talvolta, affrontare resistenze e tensioni anche interne, al punto che qualcuno l’accusa persino di disperdere l’eredità del «Gius».
L’intervista con don Carrón prende le mosse dalla pubblicazione di una nuova versione, per i tipi delle Edizioni San Paolo, di un testo di don Giussani del lontano 1973, Dalla liturgia vissuta. Una testimonianza.

Come mai questa scelta?
«A lungo abbiamo riflettuto se fosse il caso di ripubblicare quel libro, ma ci sembra che sia ancora utile e attuale per introdurre con semplicità i fedeli alla liturgia. Don Giussani non poteva concepire una proposta cristiana senza la liturgia come punto sorgivo della vita nella fede. Tutti siamo invitati a entrare, grazie all’atto liturgico, nel mistero di Dio e ad attingere da lì l’energia necessaria per vivere nella vita quotidiana tutta la novità che il cristianesimo implica».

La ripubblicazione di questo libro non è il segno di una tentazione “spiritualistica”, una fuga dai problemi concreti?
«È proprio il contrario. Soltanto una persona che ha le sue radici nel mistero di Cristo può essere una presenza diversa, un segno di novità nel mondo. Senza questa origine, misteriosa ma assolutamente reale, noi cristiani saremmo come tutti gli altri».

Nel 2007, papa Benedetto XVI nell’abbazia di Heiligenkreuz, in Austria, disse: «Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa». Tuttavia è esperienza comune che spesso la liturgia rischia di non parlare al fedele di oggi…
«Questa è una sfida alla capacità educativa della Chiesa. Chi ha la percezione del valore della liturgia non ha bisogno di aggiungere nulla per renderla interessante. Don Giussani ci ha introdotto al linguaggio della liturgia con la sobrietà nei gesti, curandola in tutti i dettagli, specie nei canti».

Colpisce leggere nell’introduzione di Giussani al volume questa frase: «Invece di cogliere il discorso di Dio come la lingua nuova che distrugge la nostra sapienza, abbiamo reso la parola di Dio sostegno della nostra sapienza». È una tentazione presente anche nella Chiesa attuale e in Cl?
«È un rischio sempre presente in ogni tempo. Ciascun credente vive in un contesto storico preciso e assorbe una cultura, una mentalità con la quale si avvicina alla parola di Dio. Il risultato è che, a volte, siamo tentati di usare la parola di Dio a sostegno dei nostri schemi mentali, invece che accada il contrario, ossia che noi veniamo “spostati” da essa. È la Chiesa che ci impedisce di ridurre la parola di Dio alla mentalità del tempo».

A quale «conversione del cuore» oggi, a suo parere, Cristo chiama la sua Chiesa? E Cl? Lei disse in una intervista dell’estate scorsa: «Abbiamo riportato al primo posto la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Preferisco la testimonianza alla militanza»…
«La parola “testimonianza” si impone sempre di più nella riflessione teologica per definire la modalità con cui il cristianesimo permane. Siamo davanti a una situazione storica inedita, “un cambiamento d’epoca”, come dice il Papa. La questione cruciale oggi è come rendere attraente la fede e la vita cristiana, in un mondo in cui il valore supremo è la libertà: non c’è altro modo di comunicare il vero che non passi per la libertà. È la lezione del Concilio. La verità non ha bisogno d’altro. E la fede non si comunica per costrizione, ma per “attrazione”. Questo equivale a tornare alle origini dell’esperienza cristiana».

Questo, però, ha un prezzo: ritornare alle origini vuol dire accettare il rischio di essere minoranza, di non contare…
«Da tempo, come cristiani, siamo minoranza. Come dice Benedetto XVI, occorre accettare il metodo “sommesso” di Dio: perché, dopo la vittoria della resurrezione, Cristo si è rivelato solo a pochi apostoli? E ancora: perché la storia della salvezza è cominciata con Abramo e Dio non si è mostrato, invece, ai potenti della terra? Questo stile sommesso di Dio tante volte ci sconvolge. Ma se non ci lasciamo sfidare da esso, cercheremo sempre di giustificare le nostre strategie. Proprio come Pietro, che non voleva che Gesù salisse a Gerusalemme o che sfoderò la spada quando il Maestro stava per essere arrestato. Perciò, o noi ci immedesimiamo con questa modalità di azione di Dio, oppure l’essere minoranza sarà vissuto come una “minorazione”, invece che come un’occasione per condividere con tutti la grazia della vita vissuta nella compagnia di Cristo».

Nell’aprile scorso lei ha scritto al movimento spiegando, dopo aver incontrato personalmente Papa Francesco, di sentirsi «pieno di stupore per avere percepito più chiaramente la profonda consonanza tra papa Francesco e don Giussani». Cosa intendeva?
«Chi ha preso parte all’incontro del movimento con papa Francesco il 7 marzo 2015 e ha ascoltato le sue parole, ha potuto toccare con mano quanto gli siano familiari certe espressioni di don Giussani. Per noi è una gioia constatare che la modalità di concepire il cristianesimo cara a Giussani coincide con quanto il Papa propone. Che poi noi siamo in grado di vivere fedelmente tutto ciò è un altro paio di maniche. Anzi: una scommessa».

Il tema delle periferie, così caro a Francesco, lo si ritrova spesso rilanciato sul mensile Tracce, così come è stato evocato in molti incontri delle ultime edizioni del Meeting di Rimini…
La categoria di “ambiente” è centrale nell’esperienza del movimento. Del resto, Cl è nata in una scuola e poi si è diffusa in tanti ambienti. Spesso siamo stati accusati di portare la gente fuori dalle parrocchie, quando invece Cl incontrava le persone là dove vivevano. Don Giussani ci ha invitato a vivere la fede nel reale, non in ambiti “protetti”. Oggi, sentendo papa Francesco parlare di “periferia” e di una Chiesa “in uscita”, siamo richiamati al carisma originale».

Don Carron, lei ha mai avuto – come credente prima ancora che come prete – crisi, dubbi o interrogativi rimasti irrisolti davanti a fatti che la ragione non comprende?
È impossibile che, nella vita, una persona non si misuri con interrogativi del genere. Anche a me non è stato risparmiato niente del dramma di ogni uomo. Alcuni anni fa è morto mio papà e mi ricordo che, guardando alla sua salma, mi sono chiesto: “Questo è tutto?”. Mi è venuto allora spontaneo pensare ai discepoli, a quale sarebbe stato il loro sguardo al mio posto: credo che non avrebbero potuto evitare di ricordarsi che avevano visto risorto e vivo l’Amico che era stato deposto nel sepolcro».

Cosa le procura più sofferenza?
«Il cambiamento che sta avvenendo nella vita del movimento e della Chiesa sconvolge e non tutti reagiscono allo stesso modo. Ma mi è di consolazione pensare che fa parte del disegno di Dio il fatto che egli chiami qualcuno per mostrare certe cose e che, quindi, a volte alcuni possano non capire. Questo, talvolta, mi porta a patire incomprensioni nella vita del movimento. Personalmente vivo tutto questo in pace, anche se certe cose mi feriscono. Ma ho la fortuna di girare molto in Italia e fuori e mi trovo ripagato in tanti incontri significativi che mi accadono».

Un episodio, un incontro che le ha lasciato il segno…
«Mi viene in mente un’amica ugandese, Rose Busingye, che a Kampala lavora per aiutare donne malate di Aids. All’inizio pensava che la priorità fosse rispondere al bisogno offrendo le medicine, ma si è scontrata col fatto che le donne non le prendevano. Ci vuole altro, perché le persone abbiano a cuore il vivere: occorre uno sguardo che faccia scoprire il loro valore e la loro dignità. È tempo di un capovolgimento di impostazione: noi pensiamo che ciò che è più “concreto” sia anche la cosa più efficace, ma questo accade perché abbiamo ridotto la natura dell’umano, il desiderio di pienezza. Ma l’uomo – ogni uomo – ha bisogno di una ragione adeguata per vivere».