Un incontro al Meeting di Rimini.

Dalla Lituania a Taiwan: un "prodotto" che interessa il mondo

Il 5 giugno si è tenuto l'incontro dei volontari del Meeting. Da gente che rinuncia alle vacanze per allestire la fiera a chi, dall'altro capo del pianeta, prepara una mostra. Perché «seguendo un avvenimento si diventa giovani»

Emilia Guarnieri
Il primo canto che facciamo insieme dice: «Credi solo in nostro Padre, che è venuto e che verrà a portare la giustizia contro la malvagità...». Ecco, continuiamo a fare il Meeting per gridare a tutto il mondo che la giustizia che ogni uomo desidera, ma potremmo dire la verità, l’amore, lo stare insieme degli uomini, la bellezza, il senso delle cose, per gridare a tutto il mondo che questa è un’esperienza possibile. Non scontata ma possibile: è un percorso ed un’avventura possibile.
Oggi cominciamo raccontandoci quello che sta succedendo a noi e attorno a noi che facciamo il Meeting. Testimonianze e racconti di ciò che sta accadendo, perché quello che accade lontano dal Meeting, quello che accade a partire dai rapporti che il Meeting mette in movimento è veramente qualcosa di incredibile, di cui spesso non ci accorgiamo neanche. E allora oggi vorremmo proprio partire dall’accorgerci di cosa sta succedendo.
Leggo una mail che ci ha scritto una nostra amica dalla Lituania: «Qui ci sono grandi novità. I nostri hanno deciso di partecipare al concorso di cortometraggi Meeting Rimini Film Festival. È una storia molto bella: un anno fa, abbiamo incontrato un ragazzo che ha una grande passione per i film e desidera diventare operatore cinematografico. Adesso sta facendo un anno di preparazione per entrare all’Accademia di Vilnius. Gli ho raccontato del concorso e lui si è entusiasmato, ma la cosa bellissima è che si è tirato dietro una marea di gente, del movimento e non. Per lui il film sta diventando un’occasione per approfondire l’esperienza del movimento. È uno spettacolo vederli in azione! L’altra cosa riguarda la mostra sulla matematica: c’è una ragazza di Gs che, presa dall’entusiasmo, ha raccontato alla sua prof di matematica della mostra, e l’ha addirittura invitata a partecipare. Ho letto gli articoli su Tracce e la breve descrizione della mostra sul sito del Meeting. Ci sono altri materiali su questa mostra in inglese? Mi piacerebbe darli a questa ragazzina e alla sua prof. Stiamo verificando quanti dei nostri sono intenzionati a venire...». In effetti ci hanno già fatto sapere che dalla Lituania verranno in dieci.
Questo concorso di corti, partito forse per il gusto di qualcuno, sta diventando un’enorme occasione di rapporto e di incontro in giro per il mondo. Pensate che per il concorso di quest’anno ne sono arrivati più di settanta e, la maggior parte, non dall’Italia. Tra l’altro, quest’anno abbiamo organizzato due preview, a New York e a Roma. È una fioritura di rapporti imprevisti, per il fatto che uno ci ha messo il cuore, coinvolgendo anche altri. E, badate, si tratta di uno qualunque, non del miglior ciellino dell’universo: in alcuni casi, infatti, non è neanche del movimento.
Eppure, intorno a questo uno (uno che, per l’incontro fatto, evidentemente ha visto nel Meeting una possibilità umana bella), quest’anno sono nate un sacco di aperture e di possibilità. Ve ne dico solo alcune: oltre al nostro gruppo francese, quest’anno dalla Francia verranno dieci ragazzi dalla città di Saint-Maur-des-Fossés, gemellata con Rimini. Quindi altra storia, altro film: ad un Vescovo parigino, colpito dal Meeting, è venuto in mente di fare questo gemellaggio. Ne ha parlato con il Vescovo di quella città francese, il quale s’è entusiasmato, per cui verrà un gruppo di ragazzi. E non vengono a caso: sanno dove vanno, perché sono stati scelti tra persone a cui il Meeting interessava (tra loro ci sono cattolici, musulmani, personalità varie...). Tra l’altro hanno coinvolto anche un’altra città, sempre gemellata con Rimini: Ziguinchor (Senegal), per cui viene anche un gruppo di ragazzi da lì. Tutte cose nate perché qualcuno ci ha messo il cuore sopra e perché lo Spirito poi le ha fatte nascere.
Altre cose che succedono quest’anno: la comunità dell’Irlanda (un’ottantina di persone) farà le vacanze al Meeting, dove interverrà la loro presidente della Repubblica. Poi verranno 22 persone, di cui 11 universitari, da Taiwan (al Meeting verrà presentata la traduzione del Senso religioso in taiwanese). Verrà inoltre un gruppo di studenti e di adulti dall’Ungheria, perché quest’anno un gruppo di ungheresi ha realizzato una mostra su santo Stefano d’Ungheria. Anche questo sta succedendo, quest’anno: delle realtà dell’estero collaborano e condividono l’esperienza del Meeting, tirandone su dei pezzi. Così è per questa mostra su santo Stefano d’Ungheria, per quella dei brasiliani sul Samba, per quella degli spagnoli sul Portico della Gloria di Santiago, per quella di un gruppo di universitari americani su Flannery O’Connor. Insomma, anche la costruzione delle mostre è diventata un’occasione per l’intessersi di rapporti. Dopo New York e Madrid, poi, a ottobre ci sarà una presentazione del Meeting al Cairo, organizzata dall’amico Wael Farouq insieme ad alcuni giudici egiziani e ad una realtà istituzionale dell’Egitto.
Continuiamo con alcune testimonianze. La prima la leggo io, perché chi l’ha lasciata non è potuta esserci oggi.

Elisa (Rimini)
Non so ancora perché lo scorso anno sia stata scelta per aiutare a costruire la mostra su Napoli. Ho detto «sì» di schianto per l’amicizia con don Eugenio. Non avevo mai lavorato, anzi, per il lavoro che facevo prima riuscivo a partecipare solo a qualche incontro. L’anno scorso, invece, ci ho passato 19 giorni. All’inizio pensavo di fare una cosa utile per la costruzione del Meeting, ma dopo i primi giorni sono stata costretta ad andare al fondo della questione. Non mi bastava far fatica nemmeno in nome del movimento: avrei mollato tutto, ci doveva essere per forza una ragione in più. Mi è capitato ultimamente di leggere ciò che Carrón ha detto a quelli del servizio d’ordine del Triduo: «Che prima di tutto quel che fate sia per voi». Il servizio da fare per gli amici, per la bellezza del gesto, perché tutto sia curato, persino nei particolari... Uno può darsi così tanto che si dimentica di sé. Allora per me era cambiato questo: non era appena un lavoro che facevo per la mostra, ma era per me, per riconoscere sempre di più Lui all’opera, Lui presente anche in quella circostanza. La cosa che più mi ha colpito è la trama di rapporti che è nata, prima di tutto quello con Alessandra. Mi ha stupito il suo modo di lavorare, ma soprattutto il modo in cui mi guardava: sembrava ci conoscessimo da sempre, che fossimo amiche da una vita. È nata un’amicizia che, come mi ha scritto, non dà tregua, e fa camminare. E poi con i ragazzi di Architettura di Milano: erano più piccoli di me e con una vita diversa dalla mia, ma sono stata costretta a seguirli, prima di tutto sul lavoro: non sapevo nemmeno stuccare un cubotto, e la loro serietà nel modo di lavorare era impressionante... Li seguivo perché era evidente che stavano guardando là dove io non guardavo. Il pomeriggio del primo giorno di lavoro li aspettavo all’ora stabilita alla mostra, sono arrivati in ritardo. Ero già pronta a dire qualcosa, ma mi hanno detto: «Perché non sei venuta a dire l’Angelus?». Mi ero dimenticata, era più importante lavorare. In quell’istante ho capito che quelli erano miei amici, perché mi facevano girare lo sguardo. Questo ha reso nuovi alcuni rapporti con gli amici di sempre.

Beppe (Cremona)
Racconto come è iniziata la mia esperienza di lavoro al pre-Meeting. Tre anni fa, finiti gli Esercizi della Fraternità, Giancarlo ha ricordato a noi adulti di dare una mano a tirare su il Meeting. Avevo già sentito diverse volte quest’avviso, ma quella volta mi colpì particolarmente. Mi aveva colpito il fatto che si sottolineasse la necessità degli adulti: altrimenti, i giovani da chi imparano? Una sera d’estate, ad una cena tra amici, mi era ritornato in mente e mi rugava dentro... Morale della favola: siamo venuti a casa e abbiamo raccontato quello che è successo. Per me è stato un incontro.
Se dovessi dire che cos’è il pre-Meeting, direi che è l’espressione di don Giussani, del movimento, della Chiesa, insomma l’espressione di quello che ho incontrato: Gesù Cristo. Tant’è vero che è cambiato anche il mio modo di lavorare. Per esempio, nella mia ditta è venuto a lavorare un signore cui mancavano tre anni alla pensione, che era sempre stato licenziato perché non sapeva fare certe cose. Guardandolo, mi dicevo che non potevo licenziarlo perché sbagliava. Al pre-Meeting avevo visto un’altra cosa: nella Chiesa c’è posto per tutti. La mia responsabilità rispetto a lui è diventata riuscire a capire che cosa sa fare e, quindi, trovargli un lavoro in cui possa esprimersi. Perché un uomo senza lavoro non scopre se stesso. Il mio primo cambiamento è stato questo.
Quando siamo tornati a casa dopo il pre-Meeting, abbiamo voluto raccontare di quei giorni a dei nostri amici. Non è che fossimo particolarmente bravi a raccontare, ma quello che ci era successo si leggeva sulle nostre facce. Grazie al nostro racconto, l’anno dopo da Cremona siamo venuti in dodici, per un passaparola.
La testimonianza più grande e commovente è quella di chi non riesce a venire al Meeting (soprattutto quest’anno che è un momento di crisi economica). Ti telefona e ti dice: «Quest’anno non ce la faccio a venire al Meeting...». Io personalmente non posso fare a meno di pensare le mie vacanze senza una cosa del genere. Infatti mi innervosisco quando, parlando con qualcuno del movimento, gli racconto le mie vacanze, prima con la comunità e poi al pre- Meeting, e mi sento ribattere: «E poi?». A me viene da dire: «E poi che cosa? Queste qua sono le mie vacanze!». Per me la vacanza è questa: è talmente invadente, coinvolgente l’incontro con Cristo, con questa realtà che vince il mio borghesismo, vince la dialettica, lo schema, vince tutto, che non desidero nient’altro. Concludo dicendo che il 16 maggio siamo andati a Roma, e io all’inizio pensavo di andare perché il Papa aveva bisogno. Poi Carrón ci ha detto che siamo noi ad aver bisogno di lui. Allo stesso modo, il Meeting è trent’anni che lo fanno senza di me (non è che se non vado non lo fanno più), ma sono io che ho bisogno di vederlo e di viverlo.

Dario (Milano)
La settimana scorsa Beppe mi ha telefonato per chiedermi se sarei venuto a quest’incontro. Gli ho detto di no, perché dovevo andare in montagna e ci tenevo molto. Beppe ha insistito. Allora m’è venuta in mente una frase che ho sentito da un grande amico e che quest’anno ha dominato la mia vita: «I discorsi sono fumo dietro cui ci nascondiamo». Perché quando una cosa t’interessa, corri! Ho pensato allora: «Cosa vado a dire? Sono totalmente inadeguato. Al Meeting sono sempre stato uno spettatore, al massimo. Quindi l’unica cosa che posso dire è cosa vivo e cosa ho vissuto quest’anno».
Pensando al correre mi è venuto in mente che da un anno cerco di correre. Spesso inciampo, zoppico e mi fermo, ma mi rialzo e non mollo. Anzi, è un po’ più di un anno: è da qualche anno che ho iniziato a correre, perché tutto per me è iniziato in quel settembre del 2006, in cui sono stato mosso dall’invidia verso un mio collega di lavoro. Vedendolo sempre più lieto ed io sempre più arrabbiato e mai soddisfatto della vita, gli ho detto: «Basta, mi hai stufato. Voglio venire a vedere che cosa ti fa lieto». E ho capito che è una mossa un po’ incosciente, nel senso buono, perché alla fine non sai mai dove ti porta. Ma se vedi una cosa che t’interessa non puoi non andarle dietro. Così la mia vita da quel giorno è diventata un fiume in piena, un continuo ribollire. Ho scoperto che la letizia è possibile e che è una cosa che ti toglie la pelle di dosso. Sono rinate le passioni che avevo e la voglia di fare. È rinato anche il rapporto con mia moglie, dopo 18 anni di matrimonio, fino a chiedersi: «Ma chi sei tu per me?».
Ad un certo punto, dopo un po’ che seguivo questi amici, mi sono accorto di una cosa sorprendente: più seguivo loro, più seguivo altri. Ed è impressionante perché questo non ti stufa, anzi, ti spalanca e ti libera: guardando loro, vedevo altri a cui loro guardavano.
Circa due anni fa, di questo periodo, capito su una macchina con due amici, di cui uno era Beppe, che però all’epoca non conoscevo. Mi portano sulle Dolomiti a trovare altri amici. Da quel giorno, quei due uomini non li ho più mollati. E Beppe lo sento tutti i giorni, o la mattina o la sera. Io abito a Milano e lui a Cremona. Il settembre successivo vedo Beppe che, al ritorno dal pre-Meeting, aveva una faccia da invidia. Lì mi succede la stessa cosa di tre anni prima, quando avevo visto quel collega. Gli chiedo: «Ma dove sei stato? Voglio venire a vedere cos’è che ti fa quella faccia lì!» Io il pre-Meeting l’ho sempre un po’ snobbato, è una di quelle cose con cui non ho mai voluto fare i conti, una cosa per altri. Ma quando vedi uno che ti colpisce così, se sei un filo leale con te stesso, non puoi non esser curioso: un’invidia totale. Così, quando dopo un anno arriva l’estate, non mi dimentico la faccia sua e degli amici di Cremona. Decido di rinunciare alle vacanze e parto con la mia famiglia e altri amici per una settimana in falegnameria. La cosa incredibile è che quell’anno, per una serie di problemi, Beppe non era potuto venire. Ed era il motivo per cui ero andato... Ma non si è rivelato un problema perché, in fondo, non ero andato per lui, ma per quello che lui aveva visto, che era possibile anche per me.
Dal pre-Meeting mi sono portato a casa queste due piccole cose: la prima è che puoi stare dieci giorni a costruire dei pezzi di legno che non vedrà mai nessuno, o puoi pitturare il retro di un bancone dove al massimo qualcuno poggerà solo i piedi (la maggior parte dei lavori sono così, là dentro), provando però la stessa intensità che si prova a costruire la facciata di una mostra che vedranno in centomila. Lì mi è sembrato di capire la sfida che c’è tutti i giorni nel lavoro: il problema è il mio cuore, ciò che mi riempie, non la circostanza bella o brutta che ho tra le mani. L’altro giorno, alla Scuola di comunità Carrón ha detto che partecipiamo a tante cose, che qualche volta ci colpiscono anche emotivamente, senza però toccare la radice dell’io. E che serve intravedere una strada da percorrere, se no non penetriamo la crosta. Possiamo fare tante cose, ma poi andiamo a casa guardandoci come prima, e uno ad un certo momento si stufa. Mi colpisce perché lì ho fatto proprio quest’esperienza.
La seconda cosa è l’esempio dei miei figli grandi. Li ho portati con me a lavorare e, più di centomila parole, è stato il gesto più educativo dell’estate. Li vedevo presi da qualcosa che non si davano loro. Stavano costruendo ogni giorno un pezzettino di una cosa più grande di loro, di cui non percepivano neanche i confini.
Quando un amico mi chiede come sto, ultimamente tendo a rispondere: «Drammaticamente lieto». Lieto perché più si va avanti e più stare con Gesù ti rende lieto, non ci sono santi. Ma ancora più ferito, perché ho bisogno di Lui, di rivederLo, di non essere appagato, mai tranquillo, e desidero ritrovarLo. È per questo che spero di avere sempre più amici che mi tengano aperta questa ferita. Anche decidendo di nuovo di giocarmi le vacanze e tornare a fare il pre-Meeting.

Giuseppe (Abbiategrasso)
Anch’io sono stato invitato l’anno scorso da Beppe che, nella sua testimonianza alla Birra, mi aveva colpito tantissimo. Sono trent’anni che vengo al Meeting. Da quando è cominciata quest’avventura, penso di non aver mai mancato un anno. E penso che sia stato proprio il desiderio di cose grandi che mi ha spinto qui, ogni anno, a questo appuntamento. In trent’anni, però, non avevo mai aderito alla proposta di lavorare, un po’ per pigrizia, un po’ perché in agosto c’erano sempre delle cose da fare che sembravano più importanti...
L’anno scorso ho fatto una settimana al pre-Meeting. Perché ho deciso finalmente di venire? Non perché non avessi più niente da fare in agosto, ma per scelta: ho cercato di giocare di più la mia libertà, il mio cuore, il mio io. Questa del pre-Meeting mi era sembrata una grande occasione. Anche perché gli amici che mi avevano invitato, li vedevo entusiasti di quest’esperienza. Ho iniziato a lavorare in falegnameria con gli amici che mi avevano invitato. E devo dire che mi sono dato da fare e che mi veniva anche bene. Dopo un paio di giorni, passando per la mostra sull’«avventura quotidiana nelle riduzioni del Paraguay», ho incontrato alcuni amici di mio figlio Pietro, che mi hanno invitato a lavorare con loro alla preparazione della mostra. È stato straordinario come in poche ore mi sia fatto coinvolgere. Vedendo questi ragazzi mi sono trovato appassionato per contagio ad un lavoro che non avevo mai fatto. Vedevo, giorno per giorno, trasformare quella materia che è il polistirolo in qualcosa di bellissimo (non so se vi ricordate la facciata della chiesa). Non si è giovani perché si fanno cose o lavori da giovani, ma perché accade che seguendo un avvenimento si torna giovani. Questa è la mia esperienza di questi anni. Per questo sono ancora qui e per questo chiedo al mio cuore che mi faccia desiderare ancora cose grandi.

Alessandro (Rimini)
All’inizio non facevo lo steward ma stavo in amministrazione, contavo soldi. Poi mi sono stufato e ho chiesto di cambiare. In realtà, ripensandoci adesso, mi rendo conto che il problema non era, e non è nemmeno ora, ciò che fai: il problema sei tu che lo fai, qualunque cosa tu sia, dallo steward al contabile. Durante il primo anno ho fatto lo steward imparando, perché non l’avevo mai fatto. L’anno scorso, invece, mi ha colpito che mi abbiano richiamato per dirmi: «Vogliamo che quest’anno tu rifaccia lo steward con noi». Poi in realtà il lavoro non è cominciato nel migliore dei modi: il primo giorno mi affidano la delegazione di ospiti kenioti, che sfugge alle mie (poco vigili) attenzioni e inizia a vagabondare liberamente per la Fiera... Naturalmente vengo beccato e sgridato. Loro non corrispondevano allo schema che avevo. La corrispondenza non è quello che pensi. Questo l’anno scorso è stato chiarissimo: le cose non vanno come vuoi tu...
Poi mi sono ricordato di una cosa che ci diceva sempre Giussani al Clu: gli esiti non ci appartengono, quindi non sono definito né da un ruolo, né da quello che sto facendo e, in ultima analisi, nemmeno dal fatto che quello che sto facendo funzioni bene. Sono impegnato fino in fondo nel particolare, però capisco che in fondo neanche questo mi definisce. Dietro il banco delle responsabili c’era un cartello con una frase di Giussani sull’amore all’ordine. Ogni tanto la rileggevo e dicevo: «Questa l’hanno messa per tutti, ma innanzitutto per me». Perché se, anziché pensare al ruolo, al fatto che le cose funzionino bene, penso per prima cosa a me, cioè al fatto che quel che conta è che ci sia io lì, poi viene fuori anche l’ordine.
Come steward ho fatto due cose molto impegnative l’anno scorso. La prima è stata accompagnare James Murdoch, e la seconda accompagnare il governatore Mario Draghi. Il che significa accompagnare anche chi viene con loro, per esempio la scorta di Murdoch. Allora ho capito che il problema non era tecnico, ma che avevo di fronte delle persone e che quelle persone stavano incontrando il Meeting. La mia prima preoccupazione è diventata che quella fosse un’esperienza per me. Appena abbandonata l’impostazione tecnica, infatti, è successo qualcosa. Non solo cordialità e gentilezza, che pure ci sono state. Quelli della scorta di Murdoch, il giorno dopo sono venuti a cercarci appositamente per salutarci. Potevano stare in albergo, invece sono tornati in Fiera, sono venuti a chiamare me e un’altra hostess, per salutarci. E abbiamo continuato a scriverci, poi, a raccontarci le cose. Con Draghi è stato ancora più straordinario. La gente che l’accompagnava voleva vedere com’era il Meeting, dove sarebbe andato il governatore. Mentre giravamo hanno cominciato a dire: «Ma dove siamo qui? Non è un convegno normale» e volevano veder tutto. Ci chiedevano mille cose. La sera in cui il governatore andava via, quando teoricamente dovevamo salutarci, li abbiamo invitati a cena e loro si sono stupiti. Li abbiamo invitati a cena non per il protocollo, ma perché volevamo stare con loro. Il risultato è un’amicizia, un rapporto che prosegue. Nel mio caso, che insegno Economia all’università, mi invitano tutte le volte che Draghi fa un incontro. Tanto che lunedì sono andato per la prima volta all’assemblea di Banca Italia. Quello che ho capito l’anno scorso, quindi, è che se non è per questo non mi interessa.

Giancarlo Cesana
Che cosa vuole dire l’esperienza internazionale che sta diventando sempre più significativa per il Meeting? Cioè la capacità che il Meeting ha di interessare persone lontanissime di culture e religioni diverse? Vuol dire che, in termini banali, il prodotto rende. Il Meeting è un prodotto interessante, a tal punto interessante da entrare (passatemi il riferimento economico) nel “mercato” delle idee, della cultura e da attrarre persone lontanissime: logisticamente, culturalmente e, da un certo punto di vista, anche umanamente. Secondo me, questo è uno degli aspetti più affascinanti e più consolanti della nostra esperienza, perché quando un’esperienza è in grado di interessare qualcuno, è una conferma della sua verità. La fede come certezza cresce su questa coscienza, non spunta come un fungo. Mi ricordo le risate di don Giussani quando gli dicevo che lui, secondo me, era l’unico vivente a cui bisognava dare il Premio Dante, perché era l’unico per il quale la gente studiava l’italiano fuori dall’Italia: non per il turismo, né per la storia ma per qualcosa di vivo, di presente. Io credo che l’iniziativa del Meeting sia molto opportuna e debba andare avanti, perché rimango sempre impressionato quando una persona mi dice: sono cristiana, mi sento tua amica, vi frequento perché sono venuta al Meeting. Tutto questo movimento per colpire uno, due, tre, quattro. La significatività di questa esperienza internazionale sottolinea la bontà del prodotto, il fatto che sia veramente una cosa interessante. E che cos’è questo prodotto che è il Meeting, così interessante da colpire i giovani lituani, taiwanesi, quelli del Cairo? Di che cosa è fatto il Meeting? Fondamentalmente di due cose: di discorsi e di gratuità. Discorso tanto; tutti gli anni diciamo che bisogna diminuire il parlato, anche se è cosa importantissima e non bisogna disprezzarlo. Come recita il Memorare: «Noli, Mater Verbi, verba mea despicere»; «Madre della Parola non disprezzare le mie parole», perché quando il discorso è vero, quando è sincero, traduce l’esperienza, è la modalità della comunicazione umana. Tuttavia, è anche vero che i discorsi e le parole di Gesù erano confermate dalla Sua presenza: la Sua presenza illuminava e teneva attaccati anche di fronte a discorsi che potevano sembrare oscuri. Ciò che convince del Meeting - le parole che si sentono richiedono riflessione, a volte non sono facilmente comprensibili - è che nasce come gesto di cristiani; ciò che convince del Meeting è la gratuità. Lo stesso che convinceva chi incontrava i discepoli di Gesù. Lo diceva prima Alessandro, riportando il commento di alcuni della Banca d’Italia: «Non è un convegno normale». Nei convegni normali, infatti, la gratuità non c’è; ci sono i discorsi, magari anche profondi, ma la gratuità non c’è. La gratuità è un po’ il tema di oggi perché questo è l’incontro dei volontari e, siccome stiamo affermando che la gratuità è ciò che colpisce e convince (nel senso etimologico di “legare insieme”) del Meeting, è importante capir bene che questa cosa sia gratuità. La gratuità è un fenomeno paradossale, cioè contro quello che comunemente si pensa. Come ha detto Carrón al servizio d’ordine del Triduo di Gs, l’aspetto paradossale della gratuità è che il “per te” non è possibile senza il “per me”. Una cosa che faccio per me la faccio per te. Anzi, è per me perché la faccio per te. Il cristianesimo è tutto qui: ricompone il rapporto tra me e te che, altrimenti, sarebbe spezzato. Quello che è bene per me, è bene anche per te; quello che è bene per te, è bene anche per me. Significa che il compimento della vita sta nel dare la vita. L’immagine di Dio che Cristo ha introdotto nel mondo è contro tutto il pensiero mondano, ed è diversa anche dal pensiero del popolo d’Israele, che pensa a Dio come ad un grande re, un grande dominatore che può fare quello che vuole. Cristo, cioè, è il Dio che ama a tal punto l’uomo da trovare il proprio compimento nel dare la vita per lui. Cristo la colpisce perché è gratuità, perché ha dimostrato che è possibile dare la vita e compierla. La ragione per cui veniamo al Meeting e vi lavoriamo da volontari è che, facendo una cosa per te, la faccio anche per me. È necessaria però la coscienza di un adulto, perché anche un bambino spontaneamente tende al gratuito, ma difficilmente raggiunge la consapevolezza del sacrificio. Per questo, per insegnare ai giovani, è importante che al Meeting vengano gli adulti. Per questo è importante portare i propri figli al Meeting. Il movimento non ci sarebbe stato senza don Giussani che, da adulto, ha fatto una proposta ai giovani. La fede non si trasmette senza la maturità dell’adulto; senza la coscienza dell’autorità; senza la coscienza di chi guida; senza un padre. Da questo punto di vista, il Meeting è quel fenomeno dove più si documenta l’aspetto che colpì Baget Bozzo qualche tempo prima di morire: «Anche nella Chiesa non si tiene conto che oggi c’è una crisi della fede che fa impressione. Le parrocchie sono in crisi e i preti scappano. Non c’è più metafisica, ontologia, anima, vita eterna. Niente. E, soprattutto, cosa che non era mai accaduta prima d’oggi, la fede non si tramanda più di padre in figlio. Eccetto forse che nel caso di movimenti come Comunione e Liberazione» (cfr. intervista a cura di L. Amicone, in Tempi, 25 ottobre 2007; ndr). Sempre Baget Bozzo disse, in un incontro fatto insieme, che bisogna essere mistici, non nel senso spiritualistico del termine, ma nel senso di partecipi del mistero. Il Meeting come fenomeno è la più grande documentazione di una trasmissione di fede tra generazioni, perché è la coscienza di adulti che si gioca fino in fondo coi giovani. Bisogna che i ragazzi imparino il tono della vera esperienza umana, che è poi l’esperienza cristiana, cioè il gratuito, il compimento di sé nel dono per l’altro, a imitazione di Cristo.
Come diceva Giuseppe prima, bisogna tornare ai giovani, non nel senso di un giovanilismo, ma nel senso di quello che abbiamo sentito agli Esercizi da Carrón: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?». Come si può ritrovare l’energia perduta, quando si è diventati scettici, o smarriti? Bisogna forse rientrare nella pancia della mamma? No, bisogna partecipare dell’eterna giovinezza, che sta nel dare la vita.
Così veniamo al titolo: “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Vi leggo un brano di don Giussani di cui, secondo me, bisognerebbe fare un manifesto dappertutto:

«Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere. Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore simboleggia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra, perché il cuore non tiene, cioè le ali non tengono. Invece quel cuore è il simbolo del rapporto con qualcosa.
Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire! Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo, come il ramo al tronco; vale a dire, bisogna che appartenga! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quanto volete, ma ha la percezione di appartenere a qualcosa d’altro.
Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto - o di una realtà - è la sua appartenenza, è ciò cui appartiene»
(L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, Bur, pp. 71-72).

Il cuore, l’io fatto di appartenenza, è la natura che ci spinge a desiderare cose grandi, senza paura e senza schiantarci. Questo è quello a cui noi siamo educati.