Bacon, <em>Tre figure ai piedi della croce</em>.

FRANCIS BACON Quella brutalità ferita

La prima puntata della serie sull'arte contemporanea da Tracce di gennaio. Il paradosso di Bacon, per molti di scandalo. Dichiaratamente antireligioso, eppure fu un'opera a soggetto sacro a portarlo al successo nel 1945
Giuseppe Frangi

«Come può l’apparenza essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al mistero della sua fattura?»
Nell’aprile 1945, mentre l’Europa usciva dalla guerra, in una galleria di Londra affacciata su New Bond Street, veniva presentato un pittore inglese non più giovane ma alla sua prima personale. Quel pittore si chiamava Francis Bacon. Era figlio di una famiglia cattolica che si era stabilita in Irlanda, dove Francis era nato il 28 ottobre 1909. Con la famiglia e con il padre in particolare le cose si erano messe presto malissimo, tanto che nel 1926 il ragazzo era già fuori di casa. La chiarezza del proprio destino di pittore affiorò però molto lentamente, tra tante altre strade intentate. Nel 1944 aveva distrutto tutti i lavori realizzati che ancora erano nel suo studio. Una sorta di azzeramento dal quale uscì con un’opera assolutamente spiazzante, scandalosa, drammatica, presentata in quella galleria londinese, la Lefevre Gallery: un trittico di medie dimensioni, intitolato Tre figure ai piedi della Croce. Su un fondo di un violento arancione, che identifica uno spazio chiuso, si stagliano tre creature sfigurate dal dolore; quella al centro ha la bocca mostruosamente dilatata in un urlo disumano; quella a sinistra ha gli occhi bendati come resa cieca dalla terribilità dell’esperienza vissuta; quella di sinistra, piegata su se stessa rivestita di un mantello sembra rievocare la figura della Maddalena. La mostra fece scalpore. Ma tra i primi a puntare gli occhi sulle opere di quell’esordiente e a capirne l’importanza ci fu Graham Sutherland, famoso pittore convertito al cattolicesimo e autore l’anno successivo di una grande Crocifissione per la chiesa di St. Matthew a Northampton.

«Un più profondo senso dell’immagine». Era l’esordio sconvolgente e folgorante di un artista che evidentemente affrontava la pittura come una partita decisiva ben aldilà del suo essere artista («Io non pensavo che mi sarei mantenuto grazie alla pittura, volevo solo chiarire delle cose con me stesso»). Un esordio anche scandaloso, perché Bacon non mediava, non edulcorava l’impresentabilità delle proprie immagini e in quelle tre figure ai piedi della Croce non addensava solo l’esperienza storica di un continente uscito annichilito dalla guerra, ma annunciava qualcosa d’altro: eco di una minaccia ancor più devastante che incombeva sul destino dell’uomo.

A muovere Bacon verso un simile soggetto non era certo una ragione di carattere religioso. Lui è sempre stato drastico, a volte persino brutale nello smentire qualsiasi sua adesione confessionale. Ma se non è questa la ragione che lo fece approdare ripetutamente sul soggetto della Crocifissione, quale altra spiegazione possiamo dare? Davanti a Bacon non si deve restare ostaggio di uno sguardo reattivo, che finisce ovviamente con il bloccarsi davanti all’apparenza blasfema della sua opera. A dispetto dell’intensità folgorante delle sue tele, Bacon ha bisogno, da parte nostra, di uno sguardo calmo e controllato. Tutto il suo processo creativo obbedisce a una scommessa, a una sfida drammatica più volte ribadita, con molta lucidità, nelle sue interviste: voler approdare «a un più profondo senso dell’immagine». Bacon vuole sfuggire dalla mera illustrazione della realtà, per agganciare un livello più profondo e più «acuto»: acuto nel senso di voler rapportare, nell’immagine, la realtà al suo senso. «Per me il mistero del dipingere oggi è il modo in cui rendere l’apparenza. So che può essere illustrata, so che può essere fotografata. Ma come può essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al mistero della sua fattura?».

Per compiere questo percorso Bacon aveva bisogno assoluto di punti d’appoggio. È lui a riconoscerlo apertamente quando spiega che l’immagine della Crocifissione è come “un’armatura” necessaria e non sostituibile per rappresentare certi sentimenti dell’umano. Uno dei critici che più lo avevano frequentato, Michel Piepatt, scrisse che Bacon aveva bisogno di trovare “un puntello” nelle grandi Crocifissioni del passato per poter lavorare. È risaputo che in studio tenesse sempre l’immagine della grande Croce di Arezzo di Cimabue. La teneva capovolta, per meglio evidenziare la drammatica torsione del corpo di Cristo. E il suo legame affettivo con quel capolavoro è dimostrato da un episodio recentemente scoperto da una studiosa fiorentina: nel 1966, quando un’altra celebre Croce di Cimabue venne danneggiata in modo drammatico per l’alluvione fiorentina, Bacon decise di devolvere al restauro la somma ricevuta per aver vinto il premio Rubens. Un gesto che fece con la massima discrezione, chiedendo che fossero gli organizzatori stessi a girare la somma alla sovrintendenza fiorentina.

Un urlo senza resistenza. Naturalmente c’è una distanza quasi stridente tra la potente dolcezza di Cimabue e i corpi deflagrati di Bacon. Se il “tema” della rappresentazione è sempre il dramma consumato su un corpo, Cimabue ricompone il dramma in un ordine, mentre Bacon sembra lasciarlo precipitare in un caos cupo. Ma per capire il senso di questa sua scelta dobbiamo tornare a quel trittico da cui eravamo partiti. Bacon non si limita a fare della Crocifissione una metafora della terribile esperienza attraverso cui l’Europa era passata (come ad esempio fece Picasso). Bacon spinge il suo allarme molto più in là. Nella sua Crocifissione si respira la pressione di una minaccia più radicale. Come se fossimo sulla soglia di una disfatta dell’umano, di una violazione radicale dei corpi e della carne: preannuncio di un uomo artificiale e completamente manipolato dal potere. Per Bacon questo è un piano inclinato della modernità. E per farsene piena coscienza lascia scattare quell’urlo quasi animalesco delle sue figure sotto la Croce. Non vuole fare resistenza né attraverso un’ideologia né attraverso una fede. Ma s’abbarbica alla bellezza della carne violata e ferita, al mistero ultimo che la sua natura creaturale custodisce, per proporre immagini con cui tutti devono fare i conti.