La bellezza disarmata/2

Dalla costruzione dell'Europa alla sfida educativa di oggi. Un percorso per capire come le circostanze dei nostri giorni possono svegliare l'uomo "dal letargo in cui si trova". Altri estratti dal volume di don Julián Carrón (Rizzoli 2015, pp.370 - € 18)

È POSSIBILE UN NUOVO INIZIO?
(Dal capitolo 1, pp. 5-11)

Che cosa è in gioco
L’Europa è nata intorno a poche grandi parole, come persona, lavoro, materia, progresso e libertà. Termini che hanno raggiunto la loro piena e autentica profondità attraverso il cristianesimo, acquistando un valore che prima non avevano, e questo ha determinato un profondo processo di “umanizzazione” dell’Europa e della sua cultura. Basti pensare, per fare un esempio, al concetto di persona: «Duemila anni fa l’unico uomo che aveva tutti i diritti umani era il civis romanus. Ma il civis romanus da chi era stabilito? Il potere determinava il civis romanus. Uno dei più grandi giuristi romani, Gaio, distingueva tre tipi di utensili che il civis [romanus], cioè l’uomo con tutti i diritti, poteva possedere: gli utensili che non si muovono e non parlano; gli utensili che si muovono e non parlano, cioè gli animali; e gli utensili che si muovono e parlano, gli schiavi».

Oggi però tutte queste parole sono diventate vuote oppure stanno perdendo sempre di più il loro spessore originale. Come mai?
Attraverso un lungo e complesso processo - che include la mortificazione di parole come progresso e libertà ad opera della stessa cristianità che aveva contribuito a generarle -, a un certo punto della parabola europea prende piede il tentativo di rendere autonome quelle fondamentali acquisizioni dall’esperienza che ne aveva consentito la piena emergenza.

Come scriveva anni fa l’allora cardinale Ratzinger in un memorabile intervento a Subiaco, a seguito di un travagliato percorso storico, nell’epoca dell’Illuminismo, «nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni». Questo progetto apparve allora realizzabile perché «le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili». Si sviluppò così il tentativo illuministico di affermare quelle convinzioni, la cui evidenza sembrava si potesse sostenere da sé, a prescindere da un cristianesimo vissuto. Qual è stato l’esito di questa “pretesa”? Tali convinzioni - su cui si è fondata la nostra convivenza per molti secoli - hanno resistito alla verifica del tempo? La loro evidenza ha retto all’urto delle vicissitudini storiche, con i loro imprevisti e le loro provocazioni? La risposta è davanti agli occhi di tutti. «La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita […]».

[…] È questa la natura della crisi, che non è prima di tutto economica. Riguarda i fondamenti. […] Senza una chiara consapevolezza che quello che è in gioco è l’evidenza di quei fondamenti, in mancanza dei quali non sarà possibile una convivenza stabile, noi ci distraiamo nel dibattito sulle conseguenze, dimenticando che queste hanno origine altrove, come abbiamo visto.








IL CRISTIANESIMO DAVANTI ALLE SFIDE DEL PRESENTE
(Dal capitolo 5, pp. 81-97)

«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?» Questa frase di Dostoevskij identifica la sfida davanti alla quale si trova la fede in Gesù Cristo oggi. Essa non è generica, non pone il problema se sia possibile in assoluto la fede in Cristo. L’aspetto decisivo della domanda dello scrittore russo sta nel suo riferirsi a un contesto preciso: l’Europa contemporanea. E ha come destinatario un tipo concreto di uomo: un europeo colto, formato, che non rinuncia a esercitare la sua ragione con tutte le sue richieste, che mette in gioco tutta la sua esigenza di libertà, tutta la sua potenzialità affettiva, ossia un uomo che non rinuncia a nulla della sua umanità. Per un tipo umano con simili caratteristiche, è possibile credere in Gesù Cristo? «Credere proprio» insiste Dostoevskij, come volendo sottolineare che si tratta di una fede veramente all’altezza della natura e delle esigenze della ragione.

L’insistenza di Dostoevskij sulle circostanze nelle quali - da oltre un secolo! - siamo chiamati a vivere la fede mostra sino a che punto egli le consideri, e a giusto titolo, decisive. Infatti, «le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama. Se il cristianesimo è annuncio del fatto che il Mistero si è incarnato in un uomo, la circostanza in cui uno prende posizione su questo, di fronte a tutto il mondo, è importante per il definirsi stesso della testimonianza».

Conosciamo bene le circostanze nelle quali noi cristiani ci troviamo a vivere la fede oggi. Se ne possono sintetizzare le caratteristiche nella constatazione che viviamo in un mondo pluralista, nel quale il cristianesimo - e la concezione dell’uomo e della vita che da esso deriva - è diventato una opzione fra le altre. Siamo chiamati a vivere la fede senza un contesto che ci protegga; non solo senza privilegi, ma addirittura talvolta perseguitati. Sempre più sovente assume forma legislativa una antropologia del tutto opposta a quella che noi riconosciamo come più umana e che fino a non molto tempo fa era condivisa naturalmente da tutti, anche da quanti non avevano la fede cristiana.

Possiamo vivere questa nuova situazione con rabbia, perché il corso degli eventi va in una direzione che non condividiamo, oppure accettare la sfida che pone, perché non ci consente di dare per scontato il persistere oggi di ciò che in passato era patrimonio comune, e ci chiama a mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita personale e sociale. Di fronte a questa sfida senza precedenti, non sorprende che nascano fra gli stessi cristiani differenti interpretazioni riguardo al modo di affrontarla. Si va da coloro che si ritirano nel proprio guscio, rinunciando a testimoniare la rilevanza pubblica della fede, a quanti credono che l’unico modo di difendere i valori cristiani sia assumere una posizione di reazione, senza preoccuparsi di dare ragione della loro positività nel contesto di pluralismo culturale nel quale viviamo.

Tutti vediamo l’inadeguatezza di questi atteggiamenti. Ma per liberarsi da essi non basta manifestare il proposito di uscirne o nutrire il desiderio di non soccombervi. Per poterli superare abbiamo bisogno di scoprire un modo di vivere la fede, dentro questa realtà sociale e culturale pluralista, tale che gli altri possano percepire la nostra presenza non come qualcosa da cui difendersi, ma come un contributo al bene proprio e comune. Occorre un modo di essere presenti in cui non vi sia alcuna volontà di imposizione, di sopraffazione, e al tempo stesso non vi sia alcuna rinuncia a vivere la fede nella realtà, affinché si documenti tutta la convenienza umana della adesione a Cristo.

[…] L’uomo di oggi si interesserà al cristianesimo se esso sarà in grado di mantenere questa promessa e quindi di strapparlo dal letargo in cui si trova. Il cristianesimo è chiamato a mostrare la sua verità sul terreno della realtà. Se coloro che entrano in contatto con esso non sperimentano la novità che promette, rimarranno certamente delusi. La disgrazia è che molti di coloro che ancora si avvicinano alla Chiesa alla ricerca di una risposta spesso si trovano di fronte a versioni ridotte del cristianesimo. […]

Allora, da dove possiamo ricominciare? Parlando al Sinodo dei vescovi dedicato ai laici nella Chiesa, nel 1987 don Giussani disse: «Ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la loro vita è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”».



UNA COMUNICAZIONE DI SÉ
(Dal capitolo 12, pp. 245-247)

Allora, come ridestare l’interesse, come generare il soggetto? In quale modo porsi davanti ai ragazzi e a quello che dobbiamo insegnare per cominciare quel processo che consente ai nostri studenti o ai nostri figli di introdursi nel reale? La conseguenza del disinteresse accennato, per cui ciò che viene loro proposto non è in grado di prenderli e di mettere in moto tutte le loro capacità, è la passività. Così vediamo tanti ragazzi “parcheggiati” nelle scuole o in altri ambiti. Ma noi adulti tante volte non siamo diversi da loro. In tanti insegnanti si nota una stanchezza o una solitudine davanti alle difficoltà che si trovano ad affrontare. Ricordo ancora un mio collega professore, all’entrata del seminario dove abitavo, che ritornava un po’ sconvolto da una lezione. Gli ho domandato: «Che cosa succede?». Mi ha risposto: «Guarda, ho appena detto ai miei studenti che ho meno soddisfazioni di un meccanico, perché un meccanico, se si impegna, può fare funzionare la macchina, mentre io ci ho messo tanto impegno, eppure la metà di loro deve ripetere l’anno». Allora io, per provocarlo, gli ho chiesto: «Ma questo è generale? Gli altri colleghi come fanno?». E lui: «Cambiano metodo una volta, due volte, tre volte… fin quando smettono».

Questa situazione riguarda noi insegnanti non meno che gli studenti. Infatti, dopo che uno smette di provare, di cercare, che cosa fa? Si comporta come gli studenti: subisce le ore di lezione, con la pesantezza nel cuore. Immaginatevi che interesse può ridestare negli studenti un simile professore! Questo disinteresse per la realtà, che porta inesorabilmente a una passività, ci fa capire la natura della crisi in cui siamo coinvolti: non è un problema soltanto della scuola, è una crisi dell’umano. Essa si documenta nella astenia di tanti giovani, che sembrano incapaci di interessarsi a qualcosa in modo duraturo, e nella stanchezza, nella solitudine, nello scetticismo di tanti adulti, che non trovano nulla per cui valga la pena impegnare fino in fondo la propria umanità. Tali adulti non hanno, perciò, la capacità di coinvolgere, di trascinare i giovani a un rapporto attivo con quello che hanno davanti. Come dice Péguy: «La crisi dell’insegnamento non è una crisi dell’insegnamento, è crisi di vita».

La situazione in cui ci troviamo a vivere è una sfida prima di tutto per noi. Davanti a essa, molti tentativi si sono dimostrati fallimentari, come per esempio il dire: «Siccome non possiamo interessarli, almeno diamo loro delle regole perché il fiume non debordi; appelliamoci alle forze morali delle persone, dei ragazzi». Ma tutti sappiamo che questo non serve a smuovere l’io, e il fatto che dobbiamo costantemente appellarci a questa sorta di moralismo estrinseco vuole dire già riconoscere una sconfitta.

La prima questione è se noi siamo disponibili a guardare in faccia questa situazione, a fare i conti con il reale così com’è, o preferiamo cercare una modalità per cavarcela senza mettere a fuoco la vera sfida che ci viene rivolta. Sant’Agostino si domandava: «Ma che cosa muove l’uomo nell’intimo?». Quanto è attuale! Nella situazione in cui ci troviamo a vivere, che cosa è in grado di muovere l’uomo nel centro del proprio io?