Catania, la presentazione de <em>La bellezza disarmata</em><br>©Nuccio Condorelli.

Dal paragone di un testo con la vita...

La presentazione de "La bellezza disarmata" nella città siciliana. Questa volta è il pubblico a porre le domande a don Julián Carrón: qual è il compito del cristiano in questa terra di contraddizioni? E come stare di fronte alla libertà dei figli?
Mario Tamburino

«Per un uomo. Tutti premurosi, tutti allegri per vedere un uomo». La scoperta stupita, e persino un po’ stizzita, dell’Innominato ne I promessi sposi sarebbe forse, ancor oggi, l’unica in grado di spiegare il senso della strana allegria che fa convergere tutto un popolo verso la città ai piedi dell’Etna da ogni angolo della Sicilia orientale. La presentazione a Catania de La bellezza disarmata di don Julián Carrón, sceglie una formula diversa da quella degli incontri precedenti, affidati al dialogo tra l’autore ed alcuni interlocutori d’eccezione. Le domande - spiega Enrico Jansiti introducendo la serata - sono state, infatti, selezionate tra le tante arrivate da quanti, leggendo il libro, «hanno tentato un paragone tra il testo e la vita» così com'è, nella sua «imperfezione».

«In questa terra di grandi contrasti - suona il primo intervento, quasi a riprendere, anche nella storia personale dei protagonisti, il filo del discorso interrotto a Rimini con Fausto Bertinotti - già Peppino Impastato, giornalista ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, scriveva: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura, l’omertà […]. È per questo che bisognerebbe educare alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Qual è il compito del cristiano in questa terra segnata da tanta bellezza e da tanta trascuratezza insieme?». Don Carrón è il primo a stupirsi di trovare accanto a sé un uomo come Impastato tra i compagni di viaggio inattesi nell’itinerario avventuroso e affascinante intrapreso quando, lui per primo, ha deciso di cedere all’attrattiva di cui parla nel libro. «Davanti alle urgenze del vivere, davanti alla crisi del lavoro, dei valori, davanti alla rassegnazione e alla trascuratezza», osserva Carrón: «Quanti di noi avrebbero detto così?». La questione riguarda tutti, religiosi e non, cinici e disperati, perché la realtà è una e a ciascuno tocca, in un modo o nell’altro, «di affrontare il dramma del vivere di tutti». Poiché nessuno può dire di avere la risposta in tasca, è interessante ascoltare le ragioni degli altri. E di questo dialogo il prete spagnolo sa assaporare il gusto.

Il contributo del cristiano? Quello di «fare la verifica se ciò che gli è capitato di incontrare ha la capacità di generare un soggetto che vive le sfide di tutti con una dignità, una tenacia, un’intelligenza del reale, un’operatività di cui egli è il primo a stupirsi». Si tratta di testimoniare Cristo, non come un nome astratto - spiega - ma, ad esempio, nel modo concreto di condurre un’azienda in mezzo alla tempesta della crisi senza gettare la spugna. «A noi sembra poco, ma ciò che Cristo ha cominciato nella storia ha avuto sempre la forma di un seme apparentemente insignificante, come la nascita di un bambino, ma quel seme ha generato nel tempo la bellezza del duomo di Monreale che toglie il fiato».

Le domande che seguono fanno emergere nel rapporto con il lavoro, con i colleghi, con gli alunni, ma soprattutto con i figli, tutta l’impazienza e la paura di chi vorrebbe vedere subito, in sé stesso e negli altri, l’esito positivo della promessa intravista nell’incontro cristiano.

«Tante volte», nota Carrón, «pensiamo che ciò che non risponde subito non rappresenti una risposta adeguata». In realtà, si è insinuato in noi il sospetto sul metodo del Creatore. «Chi, infatti, avrebbe mai immaginato che Dio, il quale aveva tutti i mezzi ed ogni potere, avrebbe scelto il nulla di Abramo per iniziare il cambiamento del mondo?». O chi avrebbe mai pensato «di rispondere al problema della schiavitù attraverso l’apparente irrilevanza di un biglietto con cui san Paolo riconsegna al padrone il suo schiavo come un figlio?».

È proprio nel rapporto con i figli che, nelle domande poste durante l’incontro, si gioca tutto il dramma del nesso tra la verità e la libertà. Lo smarrimento e disinteresse di tanti giovani rivelano la natura ontologica della crisi e la portata della sfida che abbiamo di fronte. Non si tratta di un problema etico che si risolve con un’imposizione. La questione nodale è: «Abbiamo qualcosa capace di ridestare l’interesse di questi ragazzi che a loro manca?».

Noi saremo disposti a correre il rischio della libertà dei nostri figli solo se saremo capaci di sfidarli a giudicare, in un paragone intelligente e libero, le risposte che pretendono di colmare il loro desiderio di felicità. Ne avremo il coraggio, tuttavia, solo nel caso in cui saremo certi che la verità che testimoniamo loro «ha sufficiente fascino da non avere alcun bisogno di dover essere imposta». Allora persino il desiderio di autonomia - che, sottolinea Carròn, è il primo passo della libertà - non ci farà paura. Come per il figliol prodigo, infatti, «l’autonomia cerca qualcosa a cui aderire. Non è un vuoto. Nell’esperienza per cui trova ciò che le corrisponde, il desiderio di l’autonomia si ritrova infine non calpestato, ma compiuto». Un incontro integralmente umano alle pendici del Vulcano, e in esso, come per l'Innominato, la possibilità di un nuovo inizio.